Era il 31 luglio del 1981.
Per commemorare le vittime della strage della stazione ferroviaria di Bologna, Carmelo Bene esegue la "Lectura Dantis" e una pagina di grande teatro viene scritta. Non sarò tecnico in questa recensione, quindi non starò a descrivervi i canti che Carmelo Bene declama, né tantomeno vi parlerò della struttura del disco. In questa recensione voglio essere egoista e parlare delle mie sensazioni, quindi cedere il posto ad una descrizione soggettiva dell'opera anziché oggettiva.
Quando si ascolta la voce di Bene, indipendentemente dagli scritti che sta recitando, si resta incantati. Quel timbro di voce, forte, acuto, vibrante, pacato, riesce ad incatenarti alla sedia, a spiazzarti, a rapirti. Anche nella "Lectura Dantis" le parole assumono un'altra forma, diventano musica, Dante viene diffuso alla gente che ascolta impaziente quelle famose antiche parole con amplificazioni da concerto rock. I canti danteschi diventano musica, vengono recitati non in maniera monocorde ma dinamica, assumono forma nello spazio, si riempiono d'aria, possono diventare leggeri o pesanti. Carmelo Bene era un maestro in questo, geniale, sublime, sregolato. Era capace di sviscerare la "Divina Commedia" , un "must" della letteratura italiana, per donare nuova vita alle parole, attualizzando il dramma dantesco ai giorni nostri. La "lectura dantis" beniana è un documento fondamentale, rivoluzionario, da possedere assolutamente in quanto "unicum", dato che, penso, non capiterà mai più una "lectura" intensa e sentita come quella fatta da Carmelo Bene. L'unica "lectura dantis", forse, all'altezza è quella di Gassmann mentre è assolutamente da evitare quella di Albertazzi il quale, purtroppo per lui, era nettamente inferiore ai due mostri sacri del teatro italiano (e forse europeo).
Carmelo Bene continuerà in queste sue letture con amplificazioni da concerto rock e riscuoterà, come sempre, un grande successo di pubblico (e di critica) ma, certamente, fu l'interpretazione di alcuni passi della nota opera di Dante a consacrare il mito beniano. Nonostante fosse seguitissimo, Carmelo Bene non è (stato) capito molto in Italia, il suo "fare teatro" era troppo avanti rispetto ai tempi (ed è ancora troppo innovativo per i nostri tempi). Per lui la bocca era uno strumento fondamentale, non gli serviva solo per declamare dei versi ma, anzi, era importante per colorare tali versi, per profumarli, per riempirli di musicalità. La parola veniva oltraggiata, inneggiata, spogliata.
La lingua di Bene non era la stessa lingua che parliamo noi oggi e non era la stessa lingua che parlavano gli italiani allora. La lingua di Bene era fatta di significanti dove le parole scorrevano, ti scivolavano addosso, naufragavano.
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