Martin Kirby & Ian Curtis. Ora, sul secondo nome penso che nessuno di voi abbia avuto alcun dubbio su chi sia e quale band abbia creato nell’ormai lontano 1976. Sul primo nome invece gli interrogativi potrebbero moltiplicarsi, anche perché non sarebbe un problema se non vi dicesse pressoché nulla. Quello che v’interessa sapere è che un ragazzo australiano, assolutamente non contemporaneo di Ian e dei Joy Division, ma ne è un assiduo fan e rimane intrappolato nell’immaginario partorito da quei personaggi della grigia e industriale Salford. A distanza di trent’anni e diversi continenti di lontananza un legame c’è, esiste un intreccio fra la produzione dei britannici e quella del gruppo di cui Martin ne è la voce e creatore dei testi, i Carpathian. Sembra paradossale, ma è così. Intendiamoci i Carpazi non c’entrano un bel nulla e non vi sono neanche i più svariati face painting che invece appartengono ai Carpathian Forest, altri lidi. Ingenuamente il monicker deriva molto più semplicemente da Donnie Darko (Carpathian Ridge, l’ispirazione) cogliendo alla sprovvista i Nostri su un’associazione con il black metal, dato che ne erano all’oscuro. Si sa a Melbourne il clima è leggermente differente e l’indecisione che t’attanaglia la mente è quella di scegliere lo spot adatto per surfare il sabato pomeriggio.

A proposito di onde, i Carpathian a inizio anni ’00 venivano inseriti nella “Wave australiana”, sì quella con nomi che francamente al sottoscritto non sono mai andati a genio come I Killed The Prom Queen o Parkway Drive. E il loro debutto nel 2006 “Nothing To Lose” non faceva altro che confermare quest’impressione. Breakdown, genericità assorta ovunque e pochissima personalità. Certo per gli scene kids australiani era oro degno di Re Mida, per come la vedo io era da dimenticare. E se ne devono essere accorti anche i nostri cinque e il 2008 vede i Carpathian sotto tutt’altra luce. Il primo indizio lo segna l’approdo per il mercato internazionale su Deathwish e l’altra impronta che come un macigno incide sulla ricerca del sound sono i Joy Division. Sì, ho scritto proprio loro, così il filo conduttore accennato in apertura trova compimento. Martin ne è affascinato e cerca di far coincidere l’introspezione tipica di Ian con l’hardcore punk del gruppo. Un’impresa non semplicissima e l’equilibrio delle forme d’espressione è uno dei capisaldi nell’anno zero dei Carpathian che nell’agosto 2008 rilasceranno “Isolation”, un titolo che non vi è nuovo all’interno di altre tracklist, mi sa. Una scelta semantica curiosa che si ripeterà con “Ceremony”, proprio come una delle ultime composizioni di casa Joy Division e in “Permanent” che condivide le lyrics con “Something Must Break” : l’omaggio è evidente. La devozione è rinforzata anche da scelte grafiche e di font minimaliste, scheletriche con il cromatismo che si fa bivalente fra bianco e nero, il dualismo antagonista per eccellenza.

Coast to coast, da quella Australiana a un’altra, più precisamente mi sto riferendo alla East Coast americana, a Boston. Proprio così, in quanto se a livello idealistico s’è sviscerato i Joy Division, la revisione dei Carpathian passa pure per la connotazione del sound. In “Isolation” saltano fuori le influenze di Have Heart (Pat Flynn comparirà come guest su “Ceremony”), di American Nightmare, Verse e compagnia bella, ma è il connubio letale con il mondo Joy Division rielaborato con precise e particolari scelte artistiche a conferire al platter in questione uno status piuttosto imprescindibile per chi è amante di certe sonorità. All’interno dei 26 minuti i nostri esplodono, riescono a creare un album che ha la potenza di cancellare la loro precedente produzione. Uno di quei dischi che ti fa dire “ma sì, i Carpathian quelli di Isolation” perché è il loro lavoro più riuscito, in cui riescono ad esprimersi al meglio, lontani galassie dai canoni banalizzanti della prima release. Il riffaggio è duro, spesso come una muraglia su cui s’infrange ogni speranza e dove la voglia di lottare contro se stessi prende il sopravvento. Le dolorose trame chitarristiche di Josh Mannitta & Lloyd Carroll s’intrecciano con il graffiato poderoso di Kirby che urla di empatia, di fraintendimenti e un certo malessere interiore che porta sul filo di rasoio più di una volta nella scelte da compiere. Viene sputata l’anomia di un paesaggio urbano desolante ricalcando certe vedute nichiliste in cui la rabbia ribolle pulsante lungo le vene, dove i meccanismi di rapporti inceppati vorrebbero essere oliati a dovere, per tornare sotto la luce del sole piuttosto che perdersi nel nulla più apatico. Ed è così che i Carpathian camaleonticamente adattano il loro sound dove le aperture melodiche alla Modern Life Is War si fanno pungenti e stridono sotto la sapiente regia del batterista David Bichard che mostra la versatilità della proposta hardcore dei nostri. Una velocità tagliente accostata spesso e volentieri a mid-tempo rocciosi in cui pare d’essere sommersi da del vischioso petrolio e in tutto ciò non si tira indietro Ed Redclift al basso che chiude la spirale malinconica dei Carpathian affiorando nei break più intimi e quant’altro, per mantenere l’atmosfera la più cupa e opprimente possibile.

Questo full length sarà anche il canto del cigno dei Carpathian che andranno avanti per tre anni, rilasciando fra gli altri l’EP Wanderlust che proseguiva e evolveva il discorso proposto qui dentro. Un’uscita che sarà segnata dal pezzo “Iron Heart” con la frase slogan di questi ragazzi Australiani : “I am the last romantic, I don’t have anything” che racchiude ermeticamente l’attitudine iniziata proprio con Isolation e che rovesciò completamente il loro percorso discografico nato con tutt’altri riferimenti. E, parere personale finale, non ho mai ascoltato un gruppo in grado di farmi cambiare così radicalmente opinione da un lavoro all’altro issandosi come uno dei must have della mia modesta collezione.

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