I Throbbing Gristle sono morti due volte.
La prima volta è stata il 23 giugno 1981, e fu un atto di volontà: semplicemente “the mission is terminated”, e per loro stessa ammissione i pionieri della musica industriale ritennero completato il loro percorso.
La seconda è stata il 24 novembre 2010: dopo una reunion lampo, a mettere definitivamente la parola fine all'esistenza dei TG è un tragico evento, la morte di Peter Christopherson.
Non ascolto i TG ogni giorno, ma qualche volta mi mancano. Son contento quindi di potermi consolare con questo “Transverse”, ultima uscita discografica degli inossidabili Chris Carter e Cosey Fanni Tutti, laddove la terza reincarnazione degli Psychic TV di Genesis P-Orridge suona troppo rock per fungere da equipollente surrogato, mentre i Coil dello stesso Christopherson già avevano smesso di esistere qualche anno fa per via di un altro tragico evento, la morte prematura di Jhon Balance. Attivi fin dal 1981 (prima sotto il monicker Chris & Cosey, poi come Carter Tutti), i due ex TG hanno con costanza e determinazione portato avanti nel tempo il loro percorso di ricerca, rilasciando anche buoni lavori, con il solo svantaggio di non poter rivaleggiare con il carisma di un Genesis P-Orridge o con il genio artistico della premiata ditta Christopherson/Balance.
Il qui recensito “Transverse”, pubblicato nel 2012, ci restituisce un'esibizione dal vivo che il duo (accompagnato per l'occasione da Nick Colk Void, musa dell'industrial act Factory Floor) ha tenuto il 13 maggio 2011 a Londra, in vista del Short Circuit Festival, happening promosso dall'etichetta Mute. Una performance che si sviluppa in quattro movimenti all'insegna delle geometrie pulsanti techno-trance/electro-industrial di Carter da un lato, e delle improvvisazioni noise/avantgarde delle due donzelle dall'altro. Una ricerca sonora che attualizza le ossessioni della Fabbrica della Morte spingendole verso i lidi pseudo-danzerecci di un'elettronica acida e stordente.
Le quattro fasi di cui si compone questo lavoro vanno vissute come un'unica esperienza in cui i suoni, seppur ovattati, sono ottimi: solamente gli sporadici interventi del pubblico fra una sezione e l'altra tradiscono la dimensione live della performance.
Il flusso sonoro origina dal pulsare ossessivo della cassa in “V1”, pulsare rimbombante che ci accompagnerà, sviluppandosi e mutando continuamente, per tutta la durata del trip. In “V2” i suoni si fanno meccanici, si materializzano i sibili fantasmatici di meuzzin in stato di trance, le chitarre barriscono ai limiti del noise rock; in “V3” già ci troviamo al cospetto di un'elettronica impastata e deforme, la ruggine industriale torna ad incrostare un involucro che pensavamo dovesse contenere solo pura techno (che ci si trovi infine nella famosa “Idioteque” cantata da Thom Yorke?). In “V4” “Transverse” trova la sua apoteosi e definitiva sublimazione in una stanza cubica dalle pareti a scacchi che si sovrappongono e sfalsano continuamente, un non-luogo in cui l'ascoltatore si ritrova a danzare a rallentatore, sospeso fra le suggestioni di un selvaggio rave-party, un rito ancestrale ed un flusso di coscienza il cui procedere è pompato dall'anfetamina e dall'LSD.
Accatnonato lo sforzo introspettivo del precedente “Feral Vapours of the Silver Eher” (2007), la ricerca del duo inglese adotta nuovamente il linguaggio scarno e sanguinario dell'industrial, del noise e della psichedelia più visionaria, un soliloquio che tuttavia non si sottrae alle istanze di una raffinata esplorazione che è in grado di contemplare anche la dimensione spirituale di una musica che viene concepita essenzialmente come veicolo per trasportare la mente oltre la superficie della mera realtà.
Una proposta anacronistica se vogliamo, ma è indubbio che Carter e Tutti non stiano peccando di auto-indulgenza: le impercettibili variazioni ritmiche, le policromie sonore, lo scontro perenne e simultaneo di beat incalzanti e stasi ambientale, reiterazione ed improvvisazione, vitalità ed annichilimento, dialettica continuamente irrigata dall'innesto di sempre nuovi elementi, tutto questo concorre a plasmare una creatura mutevole, più dinamica di quanto potrebbe apparire al di sopra della scorza di ingannevole staticità. Ma soprattutto un'esperienza sonica che si presta ad una molteplicità di letture: una faticosa ricerca che vive della tensione fra forze contrastanti e dello sforzo costante nel voler raggiungere un equilibrio fra armonia e dissonanze, ordine e destrutturazione, spirito, psiche e materia.
A partire dalla copertina (che se osservata attentamente dà una incredibile noia alla vista), “Transverse” è quindi solo un album apparentemente semplice, poiché saranno gli svariati ascolti a dischiudere i segreti che si celano dietro ad una esperienza lunga quasi quarant'anni. E “Transverse” ci restituisce quaranta minuti (se si fa eccezione dell'ultima trascurabile traccia, “V4 Studio (Slap 1)”, bonus track che riprende l'ultima sezione e la rielabora nel comfort delle pareti di uno studio di registrazione, senza apportare grandi variazioni), quaranta minuti, si diceva, in cui possiamo riassaporare ancora una volta il gusto inconfondibile di una delle realtà più complesse (i signori del primo paragrafo, intendo) che la musica moderna ci abbia mai consegnato e il cui potenziale sembra ancora lontano dall'essere esaurito.
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