L'estate finisce, ritornano le atmosfere crepuscolari, anche se poi, in verità, non è che i miei ascolti estivi abbiano brillato di particolare solarità.

 

Anche se poi “Feral Vapours of the Silver Ether” non si può definire un ascolto autunnale: è semplicemente un disco notturno, e la notte, fino a prova contraria (salvo si abiti al polo nord o più semplicemente nei paesi scandinavi), c'è anche d'estate. E infatti questo disco l'ho ascoltato molto quest'estate, la sera, la notte, il giorno no, proprio no, nemmeno nei giorni di pioggia. Quindi il discorso dell'estate che sta finendo era solo una stronzata, un incipit come un altro, un modo per prendere coraggio e riconquistare le energie sopite durante le meritate ferie per inaugurare questa nuova stagione recensoria.

 

Si riparte quindi, e si ripesca questo buon album datato 2007, figlio di questi figli minori dei Throbbing Gristle, che per l'occasione svestono l'abito industriale per accarezzarci la mente con sonorità eleganti, sensuali, che mai ci saremmo aspettati da gente come Chris Carter e Cosey Fanny Tutti. O forse sì.

 

Già nel coevo “Part Two: The Endless Not” (sempre del 2007), ritorno con il botto per i gloriosi TG nella loro formazione originale, erano rinvenibili umori jazz, ambientazioni noir, costruzioni soniche tendenti alla rarefazione mistica. Senza contare che già da tempo gli ex onorevoli colleghi Peter Christopherson e Genesis P-Orridge avevano iniziato un cammino che li avrebbe portati al di fuori del recinto spinato della musica più causticamente industriale: i Coil con la loro eterea Moon Music, gli Psychic TV rinati sotto la stella di un rock acido e psichedelico.

 

Non da meno, gli stessi Chris e Cosey, qualche anno prima (era il 2004), avevano cambiato ragione sociale (da Chris & Cosey” a Carter Tutti) per abbracciare un nuovo paradigma musicale fatto di ricerca melodica e casta contemplazione.

 

Di questo approccio è senz'altro il frutto anche il qui presente “Feral Vapours of the Silver Ether”, nuovo punto di approdo per il duo inglese, che alla seconda prova sotto il monicker Carter Tutti è in grado di confezionare un lavoro maturo, fresco, equilibrato soprattutto in virtù della sua vocazione indagatrice, per la sua natura a metà strada fra materia e spirito, per il modo in cui esso stesso si sviluppa, sorretto da un lato da una energia meccanica, zavorrante, che tiene saldi al terreno, e dall'altro sospinto da una forza di verso opposto che mira all'ascesi sensoriale.

 

L'eterna e continua mutevolezza dell'essere, il lento processo che ci porta dalla vita alla morte e poi ad una nuova vita, benché diversa: perché la morte ci cambia ma non ci distrugge, e la vita ci distrugge ma non ci cambia nel profondo del nostro essere. L'uomo come parte integrante e specchio di un universo più vasto, eterno, apparentemente immobile, animato da un dinamismo di elementi (fuoco, terra, acqua, fuoco) che sempiterni cambiano collocazione e la loro combinazione: la natura immortale, il trascorrere lento e progressivo delle stagioni, l'impercettibile passaggio dal giorno alla notte e dalla notte al giorno, schemi razionali creati per conferire intelligibilità ad un tutto che non assume mai una forma definitiva, ma che vive solo di una costante variazione nella disposizione dei medesimi elementi (terra, acqua, terra, aria). Invecchiare, in definitiva, giorno dopo giorno, senza rendersene conto, fino all'accelerazione fatale, che poi non è altro che umana dilatazione del tempo, altra umana costruzione.

 

Transitare quindi, in stato di ipnosi, un'ipnosi ricca di odori, sensazioni, elementi naturali, dalle note sognanti di “So Slow the Knife”, al piano sospeso (in stile “Music for...” di Brian Eno) di “Torn Window”; dalla notte badalamentiana di “Woven Clouds” (pare di udire l'ugola di Julie Cruise), al gelido dark d'autore di “Acid Tongue”, che proietta nel terzo millennio lo spirito immortale di Nico; e giù di nuovo, scivolando dolcemente su un manto muschiato, umido di rugiada, fino alla morte vera e propria, quella messa in musica dalle ottenebranti tracce conclusive, “Black Dust” e “Feral Vapours”, ombre di un passato che non può essere soppresso.

 

Dalla Fabbrica della Morte, potremmo dire, alla Foresta della Morte e della Vita, poiché di vita, morte, rinascita e mutamento ci parlano Chris Carter, generatore di pulsazioni minimal-electro nonché tessitore di avvolgenti atmosfere, tetre orchestrazioni, e Cosey Fanny Tutti, che con le sue improvvisazioni, con la sua “anarchia controllata”, fatta di scricchiolii di chitarra, arpeggi a mala pena accennati, di tromba ebbra e stonata, del suo non-canto ossianico, appena sussurrato (quasi tutti i pezzi sono cantati) conferisce vita palpitante ad un lavoro che altrimenti suonerebbe troppo cerebrale.

 

Cosicché “Feral Vapours of the Silver Ether” finisce per sfuggire da ogni definizione (perché “Feral Vapours of the Silver Ether” non è ambient, non è industrial, e non è jazz e non è avanguardia, né è musica etnica, né dark o oscuro cantautorato), sebbene la sua intrinseca policromia non stia nella varietà di atmosfere (i brani, anzi, tendono ad assomigliarsi in maniera tremenda), bensì nella ricerca che sta alla base del processo creativo, che annette, sintetizza pulsioni distanti declinandole in una forma compiuta e perfettamente omogenea.

 

Un equilibrio che che rassicura e al tempo stesso inquieta. Adagiatevi quindi su queste note e lasciatevi trasparire.

Carico i commenti...  con calma