In memoriam: Cathedral 1990-2013
Ammantato di macabra eloquenza, “The Last Spire” è il titolo dell'ultima opera dei Cathedral, uscita postuma, comunque annunciata, dopo lo scioglimento (irrevocabile, pare) avvenuto circa un anno e mezzo fa, sancito simbolicamente dal concerto tenutosi il 3 dicembre 2011 al Forum di Kentish Town, Londra, in compagnia di Grand Magus, Comus e Gentlemen's Pistols.
Non vi è miglior requiem che il silenzio, ma come già ci insegnavano i Nostri ai tempi dello storico immenso primo album, quel “Forest of Equilibrium” ancora oggi da annoverare fra i parti più pesanti della musica moderna, il giusto modo di andarsene è commiserating the celebration.
Il miglior modo di andarsene era questo “The Last Spire”, con il quale la longeva creatura di Lee Dorrian chiude il cerchio per tornare alle sonorità che furono in principio, sonorità già parzialmente abbandonate a partire dal secondo sfavillante album “The Ethereal Mirror”. Del resto, se Dorrian all'indomani della dipartita dai Napalm Death fondò i Cathedral per celebrare il proprio amore per le storiche band del doom-metal, Candlemass, Pentagram e Saint Vitus prima ancora che gli stessi Black Sabbath (comunque imprescindibili, senza se e senza ma!), è giusto che egli tolga la vita alla sua creatura animato dai medesimi propositi.
“The Last Spire” potrebbe quindi essere il secondo album dei Cathedral, i quali oggi non sembrano aver più voglia di scherzare, di evolversi e sperimentare, come se volessero focalizzarsi su degli scopi nel tempo persi di vista. Il sentiero del trapasso somiglia terribilmente alla via che dall'utero porta all'odiata luce: la loro musica torna ad essere prepotentemente pesante, monolitica, asfissiante, oppressiva, mastodontica, pachidermica. In due parole: fottutamente DOOM. Onore quindi a chi decide di togliersi di mezzo prima dell'inevitabile declino.
Se la carriera dei Cathedral è stata sostanzialmente una rigorosa variazione sul medesimo tema, uno sguardo fugace alla loro discografia ci fa comprendere come in verità il percorso dei nostri sia stato mutevole e ricco di continui salti indietro e in avanti all'interno del medesimo calderone di ispirazioni. E per questo il decimo full-lenght di Dorrian e compagni, nonostante la chiara manifestazione di intenti, non poteva ignorare del tutto il tragitto percorso in più di venti anni di carriera: seppur in dosi miserrime rispetto al recente passato, troviamo pertanto sprazzi di prog, di psichedelia, di tutti quegli ingredienti che hanno caratterizzato una delle esperienze più esaltanti dell'era rock e metal post-sabbathiana. Poca roba, in verità, forse la sola seconda porzione di “An Observation” riesce nella sua coda sconclusionata ad addensare una bella quantità di idee e tutto l'amore e tutta l'ammirazione che i Nostri da sempre nutrono verso il folto ed occulto sottobosco di oscure band progressive e psichedeliche che hanno “brillato” in una brevissima stagione a cavallo fra gli anni sessanta e settanta. Ma a parte questo episodio, e qualche guizzo sparso a caso lungo la durata del platter (un bel mattone di quasi sessanta minuti), la mano torna pesante, le parti prog bolse, tutte le variazioni funzionali ad un rituale funereo che intende celebrare la fine della band. “The Last Spire” è in definitiva la più netta riaffermazione di identità che i Cathedral abbiano manifestato nel corso della loro carriera: comprensibile che questo processo di auto-rielaborazione avvenga in tutto il suo fulgore un istante prima dell'estinzione fatale dell'ultima fiammella di affermazione.
Anche il grigio “Endytime”, che pure era stato una brusca virata verso il passato più remoto, non pare reggere il confronto. “The Last Spire” è un'altra storia: è bellissimo “The Last Spire”, è denso, sublime, traboccante doom in ogni sua nota o suono, fin dal suo ottenebrante incipit, fin dal sinistro gracchiare delle cornacchie, fin dal sibilare del vento, fin dai rintocchi di campana a morto, dalle minacce dell'invasato predicatore, dagli strascichi di feedback che preannunciano l'atmosferica introduzione “Entrance to Hell”. E' un macigno, “The Last Spire”, nella sostanza e nella forma, a partire dai suoni pastosi e grevi, una dimensione sonora dove ogni nota pesa quintali, si muove per inerzia, suggerisce spossatezza. Un sound derelitto e frizzante al tempo stesso, che riscopre l'efferatezza (anche a livello di soluzioni stilistiche) della vera musica underground, come accadeva ai tempi in cui i Nostri dividevano il palco con Carcass, Entombed e Confessor nello storico tour del 92 “Gods of Grind” (e non è un caso che Chris Reifert, emblema della vecchia scuola, presti la sua ugola rancida in “Cathedral of the Damned”).
...Musica per le mie orecchie...e se è senz'altro con grande tristezza che salutiamo per sempre i Cathedral, è al contempo una gioia infinita constatare che se ne vadano in questo modo. Nessun rimpianto e niente amaro in bocca: la morte muore e il suo funerale è una festa. Una festa per le nostre orecchie, una festa per i fan appassionati del combo inglese, una festa per tutti gli estimatori del doom-metal più pesante che si possa immaginare. Ogni attore si cala nelle parte assegnata nel modo più congeniale: Garry Jennings lo fa alla sua maniera, sradicando dalla sua chitarra con disarmante scioltezza un campionario di riff che per numero e qualità farebbe impallidire qualsiasi suo collega dedicato alla medesima opera di ricerca; il portentoso Brian Dixon dietro alle pelli sacrifica quel dinamismo che fu il suo contributo principale dal suo ingresso nella band ai tempi di “The Carnival Bizarre” e si abbandona con compiaciuta mestizia a ritmi lenti ed ipnotici; il nuovo innesto Scott Carlson non fa rimpiangere il simpatico Leo Smee, inspessendo il sound con gonfie pennellate di basso bello impastato; e poi c'è Lee Dorrian, voce sfibrata, voce decrepita, voce bellissima, sprofondato nuovamente nelle spire di un cantico che porta in sé il sapore dell'afflizione eterna. Il tutto condito dai suoni vintage dell'hammond, del mellotron, del moog e dei synth del bravo David Moore, assunto in qualità di session: pochi svolazzi pindarici ci dovremo aspettare dai suoi tasti, solo colate di vernice purpurea sui crepati muri della nera Cattedrale. Potranno stare tranquilli anche i fan di Dave Patchett, autore della maggior parte delle bellissime copertine degli album della band: dietro ad una cover minimale ed alquanto anonima si nasconde infatti, per chi acquista l'album originale, un poster gigante raffigurante il coloratissimo funerale dei Cathedral nell'ormai peculiare stile dell'artista, che certa paga un bel dazio all'estro inconfondibile di Jeronimous Bosch.
Non tutto è perfezione, per esempio nei quasi dodici minuti dell'opener “Pallbearer”, fra lentezza sepolcrale e fulminee ripartenze, i nostri sembrano perdere in più di una circostanza la bussola: nel susseguirsi scriteriato di immagini ed ambientazioni, rinveniamo una certa accondiscendenza a buttare giù, per un'ultima volta, tutto quello che poteva passare per la testa, e per questo “The Last Spire” non si può definire un disco perfetto, in quanto contenitore delle scorie che andavano espulse prima del congedo definitivo. Ma paradossalmente in questa non-curanza sta la bellezza dell'album che riconquista una spontaneità in parte persa per la strada dalla band.
Un lavoro che sa comunque inanellare, in un contesto di patafisica dispersione, momenti organici e dotati di un certo rigore, come l'irresistibile “Cathedral of the Damned”, scossa da poderosi mid- tempos e riff assassini (l'unico episodio tirato dell'album) o il capolavoro assoluto “Tower of Silence”, nonché primo singolo, di cui circola in rete un pacchiano videoclip. Essa è la doom-song per eccellenza, suonata dalla doom-band per eccellenza, difficile rinvenire altrove una tale perfezione sull'argomento. Di poco inferiori gli episodi successivi, tutti votati all'auto-celebrazione della band. Ma se di auto-citazionismo è lecito parlare, questo non deve scoraggiare innanzi all'acquisto dell'album, perché anche laddove il rigore traballa innanzi al rigurgito di tendenze progressive forse qui fuori luogo ma evidentemente insopprimibili (“Infestation of Grey Death”, la già citata “An Observation”) o addirittura quando l'auto-referenzialità si fa sberleffo (l'interludio “The Last Laugh”, non altro che una beffarda risata ripetuta per qualche secondo), il livello qualitativo dei pezzi rimane altissimo. E se in operazioni come queste scindere fra analisi ed affetto incondizionato diviene veramente difficile, e certamente apparirà impossibile tracciare un confine fra qualità in senso assoluto dell'opera e benevolenza nei confronti del marchio che si porta addosso (e a maggior ragione nel momento dell'addio – si sa, con i morti è lecito essere più indulgenti), l'appagamento nell'ascolto rimane l'unico punto fermo di questo ultimo capitolo della portentosa saga targata Cathedral.
Sì, “The Last Spire” è un album appagante, di sicuro agli antipodi di ogni possibilità di delusione. Ne è la prova, l'ennesima, la conclusiva, ultra-celebrativa “This Body, Thy Tomb”, che pur nella sua prevedibilità, ha il merito di riportarci per davvero ai tempi dell'esordio (risvegliando in noi sensazioni che pensavamo sepolte per sempre), per poi abbandonarsi, nel finale, dopo un breve stacco acustico, in un'ultima cavalcata a base di hammond scricchiolante e riffoni schiaccia ossa: le ultime note che i Cathedral, salvo ripensamenti (ma pare che Dorrian non c'abbia più veramente voglia – ma mai dire mai, dice il detto) depositano su questo mondo insensato.
Amen.
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