Scorgo una falla nella messe di recensioni dedicate, in questo sito, a questa poderosa formazione doom e mi ci infilo volentieri. Il settimo disco (anno 2002) di questo ormai defunto quartetto proveniente dalle meste, ma fascinose Midlands britanniche è l’unico che possiedo… ne faccio ammenda e cercherò di rimpinguare le mie scorte quanto prima.
Ciò mi consente di essere “fresco”, quasi innocente nelle sensazioni e nei giudizi a proposito di quest’album. Nel senso che non sono attualmente in grado di valutare se “The VII Coming” sia fra le loro cose migliori, magari il capolavoro, o all’opposto addirittura la meno riuscita. Nel primo caso i Cathedral rimarrebbero, nella mia esperienza, una interessante pagina heavy metal condita di pregi e limiti, nel secondo caso un gruppo notevolissimo! La verità, e questo me lo dirà il tempo, sta probabilmente in una qualche via di mezzo.
Qualsiasi amante della musica rock non limitato da ottusi paraorecchie nei confronti del cosiddetto “fracasso” o dell’inevitabile “pacchiano” generato dalle musiche heavy metal, non può non rivolgere attenzione alla obliqua, sepolcrale, destabilizzante voce di Lee Dorrian, frontman dei Cathedral e ben riuscita variante di Ozzy Osborne; però più versatile, disciplinato e dotato.
Non sempre, poiché quest’album è discontinuo nella qualità delle sue musiche, ma ascoltandolo ad occhi chiusi ed in cuffia per non allarmare la famiglia, in certi momenti sono stato trasportato mentalmente dentro uno di quei cimiteri di campagna britannici, pieni di croci celtiche affioranti mezze sghembe dal terreno incolto. Mi capitò di entrare in uno di essi bello scarrupato, al crepuscolo, e l’esperienza si rivelò indelebile… c’era un’alea pazzesca, l’energia dei luoghi di morte condita dalla suggestione unica che sa trasmettere la tradizione popolare nordeuropea in materia di oltretomba.
L’album comincia così così: nell’apertura “Phoenix Rising” (a cui è riferita la copertina) ci si dà dentro col metallo pesante senza troppa sostanza; le frasi disturbanti di Dorian sono povere di melodia e inventiva. La successiva “Resisting the Ghost” è peraltro un punk metal con tutte le caratteristiche del genere: corto, legnoso, immemorabile.
La faccenda però decolla alla grande col terzo ed il quarto pezzo, i migliori in scaletta: prima arriva “Skullflower” che irrompe con un basso mietitrebbia impegnato a scavare un riff dotato della tipica tiratona di corde estrema, squassante, ben presto spalleggiato da due belle chitarre che, un po’ in unisono un po’ in armonia, giocano la stessa carta. Il meglio però arriva nella porzione centrale strumentale: il ritmo rallenta a doom puro, le povere corde degli strumenti vengono dilaniate da tiraggi sanguinosi, il batterista tira adeguati, professionali cazzotti ai piatti e calcioni alla cassa, i coni degli amplificatori vibrano di basse frequenze omicide, capaci di schiantare da un momento all’altro le viti che li tengono solidali al telaio e di farle finire in mano al chitarrista, o anche dentro il cervello mio.
La successiva “Aphrodite’s Winter” è anche più: arpeggio iniziale di chitarra acustica che più sepolcrale non si può, declamazione di Dorrian condita di mezzi growl ma sostanzialmente “ortodossa”, timbro magnifico. Anche nella porzione strumentale l’andamento da funerale elettrico non si spezza, con l’organo malato (suonato da un esterno al gruppo) a lievitare l’atmosfera claustrofobica.
Con “The Empty Mirror” si torna lì per lì ad un repertorio meno asfissiante e rilevante, col riff ed il ritmo generici e ben poco memorabili. Passato il terzo minuto però cambia tutto, il brano prima si acquieta in un interludio atmosferico e con voce recitata, poi iniziano le bastonate doom strumentali, in tempo lento e “libero”, risolte da una nenia per organo e mellotron, peccato troppo corta poiché quasi subito tranciata di netto dal ritorno del riffaccio di chitarra. Il tutto per quasi nove minuti: è il brano centrale dell’album, in tutti i sensi.
In “Nocturnal Fist” riaffiorano le giovanili esperienze punk di questi musicisti: tre minuti di “legna” inaudita con Brian Dixon impegnato a scazzottare (fist, appunto) allo spasimo pelli e piatti. “Iconoclast” che segue non mi dice niente, le sue due o tre parti si susseguono senza incidere, meglio la successiva “Black Robed Avenger” con i suoi bridge tappezzati di Hammond cimiteriale a spezzare le sequenze in stile Toni Iommi del chitarrista, un tantino stereotipate. C’è anche l’effetto vento, ed il finale arpeggiato a’la “War Pigs”.
Dei due pezzi finali, “Congregation of Sorcerer’s” è la più estrema di tutte, la voce non si stacca dal growl (melodico) ed i riff sono sempre e solo claustrofobici e insistenti. Il gran finale “Halo of Fire” è all’inizio un lungo agonizzare di malate invocazioni sull’ottuso arpeggiare dell’organo, poi arriva il puntuale cambio di tempo/sollevamento di atmosfera, stavolta pilotato dal basso, ma insomma niente di epocale.
Ogni tanto ci vuole, cazzo! (Intendo dire spararsi robe così, fino a farsi sanguinare un po’ le orecchie). Le solite tre stelle e mezza arrotondate in eccesso.
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