C'è un filo rosso che congiunge New York e Berlino o, se vogliamo creare una contingenza linguisticomusicale, un leitmotiv. Ai due estremi troviamo rispettivamente sir Chris Spencer e Ari Benjamin Meyers. Il primo, ma già dal "sir" l'avrete capito, è il signor Unsane. Sbraita senza controllo e martoria la chitarra senza alcuna pietà, è il simbolo della malattia urbana, è il suono della fine. Il secondo invece magari non è così conosciuto, collabora con gli Einsturzende Neubauten suonando synth e piano, talvolta in studio talvolta dal vivo. Entrambi probabilmente hanno nel corpo una particella impazzita e senza controllo chiamata "estremo", e la gestiscono ognuno a modo suo. Partendo da questa particella come presupposto i due decidono di martoriare le orecchie altrui con una nuova creatura. Questa nuova creatura assume un nome che è tutto un programma, un programma fatto di dolore, intriso d'oscurità, il nome è Celan (e se volete uno spiegone su Paul Celan potete benissimo aprirvi un bel libro di letteratura). I Celan hanno però bisogno di altre componenti per poter tradurre al meglio l'urgenza estrema che si sentono dentro, così chiamano a raccolta Phil Roeder e Franz Xaver dei flu.ID (band che accompagnò in tour la creatura Unsane) e per completare il cerchio Niko Wenner (vi dico qualcosa se vi dico Oxbow?). A quel punto probabilmente Meyers fa una telefonata a mastro Blixa Bargeld chiedendogli le chiavi dell'AndereBaustelle Studio. Una volta ottenute è stato tempo di creare il disagio e chiamarlo semplicemente Halo.

E' un disco che fa un male schifoso, è un disco che passa lento, lentissimo, da un orecchio all'altro lasciando solo ansia al passaggio. "A Thousand Charms" ne è fulgido esempio. Introdotta dall'urlo disperato di Spencer lancia una melodia di una tristezza rara, un arpeggio sporco che cammina pari passo con un synth che avrà modo di dispiegarsi in voli rumoristici quando il pezzo comincia ad assumere la parte muscolosa del noise-rock unsaniano, piantando un riff circolare che piega proprio in mezzo al nulla. Con "Sinking" scendiamo sottoterra, il ritmo è disperato e lento, un sintomo Neurosisiano, il basso è marcio, la cadenza è accompagnata da una cantilena non propriamente solita nelle corde Spenceriane, ma il risultato è ansiogeno, toglie il respiro, Meyers incanala una bella melodia quasi ottantiana nel tutto, e segue bene le esplosioni elettriche. Disturbante il ritmo spezzato di "Weigh Tag" che mostra denti industriali, suoni di lamina continui ripetitivi, seguiti da una sezione ritmica al limite del paranoico. Se non siete pronti "Washing Machine" vi lascerà col culo per terra, è un silenzio che si riempie di atmosfere cineree, con il rumore dell'acqua di scarico a far da sfondo a note sparute e sintomi di memoria radioheadiana, il pianoforte entra struggente assieme alla chitarra, l'anima e il lato intimo dei due capi del fil rouge si mostra in un momento di puro grigiore. Momenti che tornano, che non si perdono, che si ricollegano nella lunghissima, slabbrata e devastante "Lunchbox", che in dodici minuti vi farà a pezzi, oh sì che lo farà. Il pianoforte insiste in un giro melodico di una cupezza infinita, è quasi un momento di jazznotturno che guarda negli occhi il post-rock di alcuni signori che arrivano da Glasgow, è calma e pace tra lacrime e carbone, e in un crescente silenzio arriva la batteria, contrappunti di piatti, piano e senza fretta, e sempre senza fretta il pianoforte aggiunge contrappunti melodici differenti, fino all'arrivo della distorsione chitarristica che s'inerpica su un synth che gratta le pareti del cervello ed esplode finalmente liberando tutti gli strumenti, in un afflato di disperazione fredda. 

Un degno saluto. 

 

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