"Monotheist". L'ultimo capitolo dei ritrovati Celtic Frost. Un lavoro che, come del resto vale anche per i monumentali album del passato, sfugge ad ogni classificazione ed è proprio in questo elemento che risiede tutta la sua forza. Uscito nel 2006, vede alla chitarra e alla voce il solito inconfondibile Thomas Gabriel Fischer, al basso l'alterttanto mitico ed oscuro Martin Eric Ain (sempre lontano dai riflettori, sempre alle spalle di Fischer, ma fondamentale e prezioso collaboratore nella composizione dei brani) alla batteria la new entry Franco Sesa, in sostituzione di Reed St. Marc, che ha declinato la proposta della reunion per motivi di salute; presente anche il chitarrista Erol Unala, il quale però poco dopo il rilascio del disco lascerà il gruppo, che tornerà così un trio, come all'epoca del suo glorioso passato.

    "Monotheist", dicevo. Un disco di non proprio semplice assimilazione, tutto incentrato sui temi della morte, dei desideri umani frustrati, della decomposizione, temi supportati da un artwork il più macabro immaginabile, con foto in bianco e nero dei quattro musicisti con il volto in avanzato stato di putrefazione, come del resto anche la faccia sulla copertina. La musica, poi, sembra parlare da sè, lasciando nell'ascoltatore, traccia dopo traccia, un senso di angoscia crescente, di mortale abbandono ai propri pensieri più ferali e infelici. E la musica proposta qui non è, come dicevo, di facile classificazione: ogni pezzo ha come una sua autonomia, eppure è completo solo nell'insieme del disco: il genere è un Thrash-Nu Metal che sconfina ampiamente nel Doom e presenta varie venature che spaziano da un rumorismo tipico dell'Industrial (forse incisiva a questo proposito è stata l'esperienza di Fischer con gli Apollyon Sun) a tocchi di delicatezza con voci femminili o violini come è invece tipico del Gothic (o meglio come nel loro monumentale "Into The Pandemonium").

    La disposizione dei brani è operata sapientemente: Fischer & Co. ci portano per mano dalle sfuriate stile Thrash-Nu Metal di "Progeny" e "Ground" alla morbosa malinconia di "A Dying God Coming Into Human Flesh", uno dei brani più riusciti, che propone un inedito Martin Eric Ain alla voce nei panni del Dio morente, una song lenta, per gran parte acustica, ma interrotta nel refrain da angoscianti scoppi di rabbia. Più Gothic-eggiante è la successiva "Drown In Ashes", introdotta da una flautata voce femminile, che prosegue stendendo il velo di malinconia che già il precedente pezzo aveva iniziato a tessere. Più dura e Doom è "Os Abysmi Vel Daath", tutta incentrata su temi derivati dalla kabala e dalle teorie di Aleister Crowley, cesellata anche da una tenue voce femminile di sottofondo, spazzata dalla voce aggressiva di Fischer, interrotta da un intermezzo rumoristico che sembra spalancare nella mente dell'ascoltatore l'infinito riverbero dell'Abisso definitivo. "Obscured" ci riporta in territori più malinconici con la sua melodia lenta e malsana, con un refrain dove una voce femminile sembra piangere con noi il nostro destino. Come per scuoterci dal mortale torpore e dalle angosce che il pezzo precedente aveva gettato sulle nostre menti, il buon Fischer ci ridesta con "Domain Of Decay", dall'incedere più Thrash e quasi briosa pur nella sua non eccessiva velocità, che ci prepara alle sfuriate della successiva, pessimistica, "Ain Elohim". Inizia a questo punto quello che i nostri artisti definiscono 'il Trittico', un terzetto di brani che inizia con la rumoristica "Totengott" e prosegue con l'ottima "Synagoga Satanae", dal sapore Doom e anche violento, la canzone più lunga dell'album, una provocazione che dietro un testo che inneggia al Demonio vuole in realtà, come spiega Ain, essere una dedica a tutti coloro che la Chiesa considera accoliti di Satana, inclusi i liberi pensatori. Chiude l'album un pezzo interamente suonato da violini, che è in realtà la terza parte di un Requiem di cui la prima parte è "Rex Irae" (in "Into The Pandemonium") e la cui seconda parte deve ancora essere scritta: è su queste tristi note che il disco si conclude, lasciando definitivamente in chi ascolta un senso di angoscia latente.

    "Monotheist" è inferiore, direi, ai mostri sacri creati dalla band nei lontani anni '80, ma è indubbiamente un lavoro ben riuscito, anche troppo, forse: volevano trasfondere nella loro musica tutta la malinconia e l'angoscia possibile, e ci sono riusciti egregiamente. I Celtic Frost sono un gruppo che ha fatto della sperimentazione la sua cifra, regalandoci dei capolavori assoluti nel passato ed ora questo "Monotheist": il Ghiaccio Celtico è tornato e la speranza è ora che sia tornato per restare, perchè questo è uno di quei gruppi che non ha mai finito di dire quello che ha da dire.

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