Uno specchio in frantumi, una visione ormai parzializzata che riflette il disfacimento di una delle più influenti e seminali metal band di tutti i tempi: sin dalla presa in visione della copertina si ha l'impressione che la magia, la suprema arte sonora che pienamente permeava il combo elvetico sino a pochi anni prima della pubblicazione di questo "Vanity/Nemesis", sia maledettamente svanita, incomprensibilmente esaurita, come se la creazione di quel fenomenale masterpiece denominato "Into the Pandemonium" avesse in una qualche maniera prosciugato la nera e visionaria vena creativa di T.G. Fischer e soci.

Ad solo un anno di distanza da "Cold Lake" (vera tomba creativa dei nostri) esce l'album in oggetto di recensione, come il risultato di una line up compromissoria tra il periodo aureo della band e che quindi comprende Warrior, Ain ed in parte il drummer Priestly ed il crepuscolare declino, con l'ennesimo "guitar hero" reclutato per i solos, cioè tal Ron Marks ed il tentacolare Bryant a dividersi tra guitars (compreso qualche leads) e basso.

L'album si presenta come un tardivo tentativo di riacquistare fiducia presso una audience ancora sconvolta dal precedente lavoro, cercando quindi di trovare nuovamente durezza, potenza e compattezza, provando a dimostrare ancora una volta la loro arte nel maneggiare materia metallica, con il risultato di suonare vagamente thrash ma mai in maniera particolarmente articolata o veloce e offrendo tuttavia una versione di sé piatta, priva di pathos e di slanci sperimentali, non riuscendo ad affondare feralmente i colpi come ai tempi di "To Mega Therion" né tantomeno a sbalordire con le mutevoli efferatezze orchestrali di "Into The Pandemonium".

Insomma il songwriting, la pretesa di farcire ogni song con leads strabordanti e forzatamente di scuola americana, il riffing (non le pose ed il look), tutto rimane ancorato fatalmente al precedente album, il che, capirete, non rappresenta nulla di positivo.

Si avverte chiaramente la confusione (non solo di line up) e l'inconcludenza che regnava nel gruppo ai tempi della composizione e registrazione del disco in oggetto: privo di spunti decisamente emozionali, il lavoro si trascina, lungo l'intero arco di durata, potente ma pachidermico e monocorde, se si eccettuano la gothic song "Wing of Solitude" (difatti l'unico brano composto interamente dal buon Tomas), dove la voce della guest Michele Amar si intreccia ad un tessuto metallico che rende il tutto sensuale e brutalmente pesante, la riuscita e funerea cover di "This Island Earth" di Bryan Ferry e la semi title track "Nemesis", commovente nel riproporre come introduzione e finale le disperate urla presenti come incipit d'apertura di "Into the Crypts of Rays" in "Morbid Tales" e comunque abbastanza ben costruita attorno ad un iniziale toccante arpeggio per poi evolversi in una rocciosa song dal morboso chorus, che conclude l'album e sancisce la mesta fine della carriera (la prima e più importante porzione di carriera) del combo svizzero.

Da dimenticare l'impresentabile revisitazione del classico seventies "Heroes" di David Bowie, davvero stravolta ed eccessivamente metal oriented, dove i nostri non sono stati in grado di salvaguardare l'intima fragilità del brano originale.

Qualche d'uno potrebbe obiettare che pezzi come l'opener "The Heart Beneath" o "The Name of my Bride" siano comunque ben costruiti ed abbiano un più che discreto riffing e che in definitiva, soppesando tutti i singoli elementi e le varie songs, l'album si presenti in modo più che accettabile: beh, il problema è proprio questo, qui non stiamo a filosofeggiare su di una delle milioni di metal band presenti sul pianeta Terra, qui si parla dei Celtic Frost e questo comporta l'assunzione di standard compositivi e qualitativi, con relativo metro di giudizio, che per altri non hanno ragione d'essere.

In definitiva "Vanity/Nemesis" mi appare come il triste documento di una band che provò a compattarsi dopo un periodo problematico e che cercò di raggiungere affannosamente l'obbiettivo artistico, accorgendosi nel mentre che tale sforzo sfociava involontariamente nella mesta fine di una carriera già fatalmente compromessa con il precedente "Cold Lake".

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