In pochi si ricorderanno dei Cemetary.
In pochissimi dei Sundown.
Meno ancora di “The Beast Divine”, unica release pubblicata sotto il monicker Cemetary 1213.
Musica tutt'altro che imprescindibile, beninteso, ma che in questa circostanza amo rispolverare per onorare la carriera di Mathias Lodmalm, personaggio sicuramente di serie B nel panorama gothic/metal del decennio novantiano (ed è tutto dire), ma in grado di conservare una sua personalità artistica nonostante gli svariati stili passati in rassegna e una line-up sempre mutevole a ruotargli intorno.
Lodmalm ha il fascino del perdente a cui le cose sono andate sempre storte. Le sue scelte – il più delle volte intempestive – lo hanno lanciato verso lidi che avrebbero potuto donargli la tanto ricercata fama, e che invece hanno portato a logorare la fiducia dei pochi fan che negli anni era riuscito a guadagnare. Dalla fondazione dei Cemetary avvenuta nel lontano 1989, fino alla definitiva uscita di scena dopo tribolazioni e traversie assortite nel 2005, Lodmalm ha combattuto la sua battaglia controversa nella solitudine, nell'affanno e nell'amarezza, ricercando disperatamente il suo posto al sole, alla ricerca di un equilibrio artistico mai raggiunto, di un successo sempre sfiorato ma mai pienamente agguantato, arrivando sempre o con un secondo di anticipo o con due in ritardo, mentre i suoi colleghi (e persino molti di coloro che sono venuti dopo di lui) coglievano via via i frutti saporiti di un'epoca felice in cui bastava accostare un riff di chitarra a delle tastiere, incrociare growl e voci pulite, per ottenere una consistente fetta di pubblico pagante.
Il fan del gothic/metal non è mai stato troppo esigente, ma mentre nei novanta Paradise Lost, Tiamat e Katatonia inanellavano un successo dopo l'altro, cambiando le sorti della storia del metal decadente, Lodmalm è stato un eroe di seconda categoria, un Fitzcarraldo che ha cercato irresponsabilmente di portare l'Opera nella giungla, finendo con far strage di indios e facendo inutilmente scollinare un enorme vascello da un ramo del fiume all'altro passando dalla terra ferma. E se l'impresa ha incontrato le mille prevedibili difficoltà fino ad abbracciare il fallimento definitivo, rimane, oltre che la mancanza di talento, la tenacia suprema nel portare avanti un progetto di affermazione il cui destino evidentemente si è rivelato crudele. Chissà se un giorno Tim Burton (come già fatto con il regista Ed Wood) vorrà dedicargli un film.
I Cemetary nascono all'insegna di un doom ancora fortemente caratterizzato da un sound death metal (si veda l'esordio “An Evil Shade of Grey”, del 1992), per poi convertirsi nel tempo in un qualcosa di maggiormente melodico (“Godless Beauty, del 1993), decisamente tributario delle sonorità sdoganate in quegli anni dagli inarrivabili Paradise Lost.
Era il 1994 e con l'uscita di “Black Vanity” i Cemetary suonavano innegabilmente come i Paradise Lost de'noantri (l'album è una copia spudorata di quanto proposto dagli inglesi l'anno precedente con il seminale “Icon”), ma trainati dal successo dei loro maestri, anche loro, insieme ad una marea di altri personaggi minori, furono in grado di raccogliere qualche frutto di riflesso.
Ma se i Cemetary lasceranno un album alla storia, quell'album è sicuramente “Sundown”, del 1996, che, pur mantenendo un sound potente e corposo, ha il merito di aver spostato l'asse stilistico verso sonorità ereditate direttamente dal calderone della dark-wave ottantiana, anticipando persino le gesta di alcuni illustri colleghi (“One Second” dei Paradise Lost” uscirà nel 1997 e “Skeleton Skeletron” dei Tiamat addirittura nel 1999). Poteva quindi essere il momento propizio per l'anelato salto di qualità, invece le cose non andarono per il verso giusto, e con lo scialbo “Last Confessions” (1997) il combo svedese si scioglie senza troppi rimpianti da parte dei fan.
Ma Lodmalm non perde coraggio: si formano i Sundown, che nascono come collaborazione fra lo stesso Lodmalm e Johnny Hagel, altro sfigato nell'universo gothic/metal, che con un tempismo perfetto era uscito dai ben più fortunati Tiamat un attimo prima della vera popolarità, proprio all'indomani dell'uscita del capolavoro “Wildhoney”. I Sundown di “Desing 19” non sono però un granché: nella loro musica si va ad esasperare la componente electro-goth già esplorata in passato, ma nel complesso la premiata ditta Lodmalm/Hagel non convince, laddove il livello di ispirazione non è certo stellare, né si è in grado di confezionare quelle due/tre intuizioni in una forma soddisfacente. Rimasto nuovamente solo, Lodmalm darà alle stampe un secondo album con i Sundown, quel “Glimmer” che uscirà nell'anonimato più assoluto (alzi la mano chi se lo ricorda!): sicuramente più pregevole del suo predecessore, “Glimmer” (1999) sa essere ancora più ruffiano, tirando in ballo nomi all'epoca molto in voga come Nine Inch Nails e niente po' po' di meno che sua stronzosità Marilyn Manson. Ma il risultato è il solito album di Lodmalm: né carne né pesce, seppur molti brani siano piacevoli e mantengano un vivido marchio di fabbrica. La scarsa risposta in termini di vendite lo porterà a chiudere il progetto e ripescare la sua vecchia creatura, i Cemetary.
Arriviamo così ai Cemetary 1213: la lieve variazione del monicker sta probabilmente a significare che sì, si torna a fare metal, non dimentichi però della piacioneria electro/industriale dell'esperienza precedente. Concetto che troviamo confermato nella cover plasticona, nella quale viene puntualmente ripescato l'uccellaccio spennato che era comparso nell'album della vita “Sundown” (che già all'epoca puzzava tanto di Katatonia) in formato cyber-punk (!!).
Tornano così i Cemetary versione 2.0: “The Beast Divine” esce nel 2000, e già potremmo rimproverare a Lodmalm che un concept a sfondo apocalittico era meglio proporlo un anno prima, nel 1999, come molti altri idioti (ma maggiormente avveduti) hanno fatto sfruttando la fine anagrafica del millennio (anche se poi gli specialisti potrebbero dare ragione a Lodmalm, visto che il nuovo millennio parte ufficialmente dal 1° gennaio 2001, ma non scendiamo in sottigliezze). Lodmalm abbandona sample e programmi per riabbracciare la sua chitarra: il sound tornerà ad essere prepotentemente metallico e verrà quasi totalmente spogliato da tastiere ed elettronica (salvo qualche ininfluente dettaglio disseminato qua e là, e i vari intermezzi di natura ambientale), mentre alle spalle del leader cambia nuovamente la formazione, anche se degli elementi vengono conservati dalla fase Sundown: non altro che dei turnisti, dato che Lodmalm continua a scrivere musiche e testi e ad avere il pressoché totale controllo della sua creatura. Ma Lodmalm è un onesto ruffiano: onesto perché continua a scrivere alla sua maniera (ce l'ha uno stile suo, una sua poetica, un modo di cantare, di suonare la chitarra, è questo che ci fa incazzare); ruffiano perché non vi è scelta nella sua carriera che non sia dettata dal voler in qualche modo piacere o, perlomeno carpire tendenze che gli possano dare un ritorno in termini di successo.
Ma come son brutti i revival, del resto, e nel parorama gothc/death ne troviamo a bizzeffe: band seminali che fanno la loro fortuna con un sound ben preciso, per un periodo trovano le palle per sperimentare ed evolversi, e poi, come strette in un vicolo cieco, si ritrovano a tornare sui propri passi con la coda fra le gambe (My Dying Bride, Moonspell, Tiamat sono i primi nomi che mi vengono in mente), e in questo i Cemetary di Lodmalm non sono un'eccezione, con l'aggravante però di non aver mai partorito album sopra la media o di aver generato vere e proprie tendenze. Dopo l'introduzione sinistramente sinfonica (“Lightning”), irrompono così le robuste distorsioni di “Firewire”: si ripresentano le chitarre compresse e il growl, anche se in una forma non particolarmente efferata. C'è da dire comunque che il ritorno all'ovile non pare dettato da atmosfere eccessivamente asfissianti, anzi “Firewire” si fa forte di un vigore thrash-metal inedito per la band, e pare che in una forma semplificata si affaccino le tendenze metalliche di Lodmalm, tanto che potremmo tirare in ballo i Metallica (quelli del “Black Album”, ci mancherebbe altro). Ma se la virulenza metallica in “The Beast Divine” è un dato difficilmente contestabile, è innegabile che il bagaglio di esperienza di Lodmalm lo porti a resuscitare le tendenze melodiche degli ultimi album dei Cemetary e il groove accattivante dei Sundown.
E così in “The Beast Divine” troviamo tutti gli elementi che hanno caratterizzato l'epopea di Lodmalm e che in un certo senso ci hanno fatto piacere i Cemetary: pezzi maggiormente cadenzati in cui i tempi decelerano (“Union of the Rats”, con tanto di intermezzo elettronico in stile Sundown) e pseudo-ballad dall'andamento “katatonico” che palesano il lato più intimistico di Lodmalm (“Silicon Karma” e “Sunset Grace”). Da segnalare la tellurica “Antichrist 3000”, la quale vede la comparsata vocale di Anders Friden (cortesemente in prestito dagli In Flames) ed un ritornello devastante che sa alternare una voce deformata dal vocoder e il consueto ruggito di Lodmalm.
Svariati sono i ripescaggi dal calderone del metallo classico, i quali vengono comunque ben innestati in un contesto in cui i riff catchy delle chitarre e i ritmi martellanti della batteria sembrano strizzare l'occhio ad una concezione più moderna del metal (sebbene le pulsioni più prettamente industrialoidi vengano in buona parte arginate): aumenta di conseguenza il numero dei pezzi più tirati, fra i quali annoveriamo, oltre alla già menzionata opener, la bombastica “Linking Shadow” (che però si fregia di un ritornello in voce pulita), la travolgente “Dead Boy Wonder” (dal ritornello irresistibile, questa va detto) e la conclusiva “Anthem Apocalypse”, che chiude invece l'opera nell'anonimato più completo.
In questa commistione fra tradizione e modernità, sono rinvenibili delle analogie con l'”Endorama” dei Kreator, che vide, appena un anno prima, gli storici thrasher teutonici flirtare con atmosfere più prettamente gothic/dark. Più o meno con gli stessi risultati di sempre: una musica che vuole dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, ma che ci lascia con la bottiglia quasi vuota e la moglie appena brilla.
Insomma, la solita quarantina di minuti a cui ormai quell'onesto ruffiano che è Lodmal ci aveva abituato: non si grida al miracolo, si apprezzano tuttavia svariati spunti, e questo basta per farsi piacere l'ennesimo saggio di inutilità di Lodmalm. Ma come sempre il suo sarà uno sforzo che passerà (probabilmente a ragione) inosservato. Si prenderà altri cinque anni di pausa, il Lodmalm, girovagando per tre continenti, alla ricerca dell'ispirazione perduta, per dare alla luce un altro lavoro (nel 2005 verranno riesumati i Cemetary senza la variante del 1213), ma l'epitaffio “Phantasma” (che Lodmalm confezionerà completamente da solo) sarà anche il suo canto del cigno: innanzi all'ennesima delusione in termini di vendite, il nostro piccolo e fasullo eroe, amareggiato, si ritirerà per sempre dalle scene, lasciando ben poco in pasto ai posteri, se non il ricordo sedimentato nella mente incancrenita di qualche appassionato del genere di quegli anni.
Tipo me.
Scusate.
Scusate ancora.
Carico i commenti... con calma