Il più grande ed ambizioso progetto concepito dall'avanguardia inglese degli anni '70. Questa è la sostanza dell'esperimento che fa capo al nome Centipede, fortemente voluto dal pianista di Bristol, Keith Tippett.
Dopo due dischi solisti datati 1969 e 1970, Tippett venne notato da Mr. Robert Fripp, leader dei King Crimson, che lo volle per le sublimi diteggiature di "In The Wake Of Poseidon". La collaborazione tra Fripp e Tippett continuò per parecchio tempo e, tra le tante, questa del 1971 è certamente la più anomala.
L'idea iniziale fu quella di generare una big band, assortita con la crema del jazz londinese, la crema del Canterbury Sound e una buona parte di avanguardisti e sperimentatori che ruotavano attorno al mondo progressivo di quegli scoppiettanti anni. Come ben si può intendere dal nome "Centipede", la scelta si fermò poco sopra a cinquanta musicisti: 13 violinisti, 6 violoncellisti, 5 trombettisti, 7 sassofonisti, 4 trombonisti, 3 batteristi, 5 vocalisti, 6 bassisti, 1 chitarrista e ovviamente 1 pianista (lo stesso Tippett) e 1 produttore (Robert Fripp). Tra i grandi nomi della masnada è bene ricordare Ian Carr, Mongezi Feza, Mark Charig, Elton Dean, Ian McDonald, Dudu Pukwana, Gary Windo, Alan Skidmore, Karl Jenkins, John Williams, Nick Evans, Paul Rutherford, John Marshall, Robert Wyatt, Julie Tippetts, Mike Patto, Boz Burrell, Roy Babbington, Harry Miller e Brian Godding.
Per quanto concerne l'aspetto musicale il lavoro vede un unico brano, suonato in quattro parti per circa 84 minuti complessivi, dall'eloquente titolo "Septober Energy". Ed è proprio in questo passaggio di transizione tra l'estate settembrina e l'autunno ottobrino, è condensato il senso elegiaco e binario dell'opera. La ricerca si basava quindi sul dualismo totale: jazz e rock, jazz e sinfonica, improvvisazione e rigore, pieni orchestrali e vuoti minimali, sperimentazione e melodia, Soft Machine e King Crimson, il tutto si muove su un abbozzo compositivo tipicamente di matrice classico sinfonico, in una strana landa dove Berio incontra Pharoh Sanders esplodendo in un muro di noise e cacofonia ossimoricamente sublime.
La distinzione tra le quattro parti, che nel vinile originale coincidevano con le facciate, è piuttosto netta e troviamo una prima parte decisamente libera e ostica dove gli intrecci tra fiati e violini creano contrasti molto decisi, in una sorta di free jazz fatto di colpi di genio e roboanti improvvisazioni, assolo di grande maestria miscelati a canti dall'impostazione quasi gregoriana, dove il linguaggio è quello delle viscere dell'istinto. Decisamente più scorrevole la seconda parte con intrusioni rock e vocali che portano il lungo binario a snodarsi su terreni più amabili dai tratti talvolta crimsoniani e tratti secondo lo stile Nucleus. La terza parte ritorna oscura e caotica, l'improvvisazione è padrona di tutto e qui provo ad immaginare Tippett con la bacchetta in mano a dirigere cotante sublimi teste su partiture stese a canovaccio, immaginandone la classe, la forza e la difficoltà gestionale. Molto variabile la conclusiva quarta parte che, sempre in maniera fortemente dualistica, si apre talvolta su sentieri più jazz rock, dal sapore vagamente Soft Machine e si chiude talvolta in furibonde improvvisazioni dove il caos avanguardistico è (solo parzialmente) trattenuto dall'esplosione ritmica di un finale che vede John Marshall nel canale di sinistra, Tony Fennell nel canale di destra e Robert Wyatt nel canale di centro, ovviamente senza fare necessariamente le stesse cose.
Digerire oggi un disco di queste fattezze è cosa complessa. Alla complessità si unisce anche una certa difficile apprezzabilità sonora di un lavoro che può risultare datato. Ma so che la curiosità è madre di molti ascolti, spesso spudorati. Quindi, tra tutte le curiosità che un ascoltatore attento potrebbe avere voglia di soddisfare, questa è da mettere in cima alla lista, perché siamo di fronte ad un lavoro chiaramente "storico".
sioulette
Carico i commenti... con calma