"Piscerai sulla banca d'Italia, ma non fuggirai il grembo, questo è il palco che rompe la voce, quando il canto è più dolce, questo è il giorno che piove negli occhi, questo è giusto il deserto"

Un deserto enorme, morti dappertutto, sangue e lamenti, i corvi, i fantasmi, l'odio soddisfatto, il sacrificio, fumo e fetore, e lui, Hellequin, l'arlecchino, il demone condottiero che nel medioevo scorazzava fra i campi di battaglia alla guida della sua armata delle tenebre in cerca delle anime dei guerrieri, teatro o triste realtà, uno scenario maledettamente attuale, è l'alba e gli sconfitti possono finalmente trovare sollievo, entrano in un'altra dimensione, la vita ormai è andata, Hellequin li ha raccolti e traghettati, inferno o paradiso non importa, tutto è finito. "Hellequin song" è un album cupo e tetro, minimale, dalle sonorità secche e incisive, poco italiano, ricorda il rock-blues nero di Nick Cave, blues, ma anche folk. Suonato in presa diretta, affascinante ed introspettivo, prodotto da John Parish (PJ Harvey, Eels, Goldfrapp, Giant Sand, Tracy Chapman), scheletrico negli arrangiamenti, magnetico nelle melodie, crudo e impietoso nei testi. Quattordici pezzi di cui cinque in inglese, maturi e teatrali che innalzano il livello della musica cantautoriale italiana.

"Dal cranio" ballata funerea, molto western, ci ricorda il nesso fra crocifissione e amore, lo splendido pianoforte di "Finito questo" introduce al peccato e al perdono, il nostro dilemma, "Fratello gentile" è un valzer elettrico con basso alla Bauhaus e cori di Manuel Agnelli che ricorda De André nella voce e nei testi, "Odd man blues" un blues appunto, ammaliante e distruggente, "Il deserto" è un valzer da chansonnier parigino, una giostra, la beffa che ogni giorno ci tende l'agguato, "To speak of love" una voce cavernosa che ricorda Tom Waits i Tindersticks e Mark Lanegan, un sogno, un viaggio, "Dite al corvo" country con banjo in evidenza, "Hellequin song" sintetizza lo spirito dell'album, uno dei pezzi migliori, "La festa di ieri" è ciò che rimane di una bella serata, fumi d'alcol e pegno lasciato, "Continuous lover, silent sister" echi di Deus vista la collaborazione con Stef Kamil Carlens (leader dei Zita Swoon) ancora banjo e slide guitar, "Usa tutto l'amore che porto" amore svenduto e rimpianto, ricorda Ivano Fossati in "Ceaseless and fierce" arriva il fantasma di Tim Buckley e la dolcissima e conclusiva "Stella and the burning hearth" la voce di Cesare si interseca con quella di Kris Reichert e la sofferenza si allontana.

Non so se Hellequin porterà la nostra anima alla salvezza, ma sicuramente ci farà scorgere una bellezza candida che ci farà stare meglio. . .

Carico i commenti...  con calma