Nello stesso periodo in cui Bruce Lee faceva furore terrorizzando il globo terrestre con il suo urlo, la kung-fu-mania si fregiava di un altro titolo che ha contribuito a sdoganare il genere in Occidente (Italia compresa): "Cinque Dita Di Violenza". Nell'opera di rivalutazione tutta "tarantiniana" di certi film considerati di serie B, ha trovato ampia considerazione anche la suddetta pellicola, dalla quale, per il suo "Kill Bill", il regista americano ha attinto a piene mani soprattutto per quanto riguarda la surreale efferatezza dei combattimenti, il sonoro, e i riferimenti alle musiche, per lo più una serie di "fanfarate" orchestrali tanto enfatiche quanto grossolane (ancora oggi è possibile ravvisarne i rimandi in una qualsiasi rappresentazione parodistica e stereotipizzante dei film di arti marziali di produzione nippo-cinese).
La storia narra la rivalità tra due scuole di kung-fu, una guidata dall'integerrimo maestro Shen Chin-Pei, e l'altra che fa capo ad un malavitoso senza scrupoli. Il giovane Chao-Chi-Chao è un allievo della prima. Al momento del provino il giovane Chi-Chao viene inspiegabilmente messo a figura di merda dall'allievo di punta, in realtà una mezza tacca, divenendo così una specie di zimbello della scuola. In breve tempo, però, il ragazzo rivela delle sorprendenti abilità, sconfiggendo fra lo stupore generale il temibile Chen Lang, un solitario combattente della scuola rivale capace di mandarti due mesi in coma con una sola capata, e inducendo il maestro a rivelargli il segreto della pericolosissima tecnica del "pugno di ferro", grazie alla quale si vendicherà di tutte le malefatte degli avversari, sbarazzandosi senza troppe difficoltà anche dello spietato killer samurai Okada.
Malgrado un doppiaggio in italiano non proprio felicissimo, in alcuni momenti espressivo e passionale come gli annunci dei treni in ritardo, il film conserva intatto il proprio fascino nel descrivere usi, costumi e valori di un mondo che, soprattutto all'epoca, era lontano anni luce dal nostro, ed è interessante anche per la caratterizzazione dei personaggi, non relegati semplicemente al ruolo di comparse coreografiche, ma dotati di una seppur minima connotazione psicologica, ravvisabile tra un combattimento e l'altro.
Perfino la violenza messa in scena, che 40 anni fa poteva momentaneamente turbare lo spettatore che assisteva a certe violazioni anatomiche (bulbi oculari cavati, tagliuzzamenti e decapitazioni varie), oggi potrebbe assolvere una funzione quasi esclusivamente edonistica: quello stesso spettatore vi assisterebbe con espressione compiaciuta, magari ripensando al tempo in cui, poco più che ragazzino, si godeva quei combattimenti alla vecchia maniera; uno spettacolo appartenente ad un periodo non ancora segnato dalla contrapposizione manichea tra i Seagal e i Van Damme "buoni" e gli asiatici "cattivi" che ha fatto la fortuna delle produzioni di genere hollywoodiane.
Una volta tanto, vale la pena stare dalla parte del Made In China.
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