Il nome "Change" non riconduce proprio automaticamente a una band Italiana un qualsiasi ascoltatore che li ha incontrati per caso. Oltretutto anche i testi sono in inglese. Allora la spontanea domanda sarà: cosa c'entra l'Italia con un gruppo musicale chiamato Change? Più di quanto sembri a prima vista.

Per chiarire il discorso a chi probabilmente non sa chi siano i "Change", ricorrerò alla storia della musica (troppe volte trascurata). Gli anni '70, più precisamente verso il '72/'73, videro in America un fiorire, prima timido, poi devastante, di un genere musicale chiamato "Disco music". La crescita tanto burrascosa che il genere ebbe verso la fine del decennio subì una altrettanto brutale e triste finale. Così, in America, gli storici preferiscono definire la fine della Disco attorno al 1980-81, per tante diverse ragioni che le imputavano di essere diventata troppo commerciale e onnipresente, o chi troppo volgare e immorale, o più semplicemente perché gli '80 erano alle porte e la Disco era legata fin troppo al passato (un passato a dirla tutta neanche tanto remoto). Non così in Italia.

La Disco Music in Italia è esistita e col tempo è diventato un genere musicale molto caratteristico. Oltre al fatto che l'Italia fu l'unico paese mondiale (forse un poco in competizione con la Francia) dove la Disco Music continuò a sopravvivere fino agli anni '90 circa. Se gli anni '80 ne hanno visto il successo, i '90 il decesso, i '70 (precisamente il 1977) ne videro i natali. Il film "La Febbre Del Sabato Sera" non era ancora arrivato da noi che un tale cantante di balera, conosciuto come "Marzio", chiese a un giovane autore e compositore di nome Mauro Malavasi di riarrangiargli una canzone rock di qualche tempo prima, seguendo i ritmi nuovi provenienti dall'America. Col nome di "Macho", Marzio diede (anche se involontariamente) il via alla Disco Made in Italy. Il singolo che accese la miccia in questione, arrangiato da Malavasi, si intitolava "I'm a man". Da quel momento in poi la produzione Disco Music Italiana cominciò a esistere e a sfornare i primi propri lavori. Se poi contiamo il fatto che in quel periodo la canzone Italiana d'autore stava subendo la più forte crisi della sua storia, la Disco sembrava (anche per i produttori oltreoceano) la manna dal cielo. Faceva presa su chiunque, faceva ballare e divertirsi, aveva una affinità unica con le radio, piaceva ai produttori (perché economica-ma questo è un luogo comune) come piaceva anche al pubblico.

La critica, assieme ai fanatici del rock (e i comunisti, all'epoca molti di più di oggi) invece storceva il naso e la guardava dall'alto al basso. Certe volte a ragione, molte volte a torto. Di fronte a questa opposizione di nicchia i produttori Disco music non tremavano di certo, ma quando il genere tirò le cuoia, tradito dal suo stesso pubblico, le fondamenta stesse dell'industria musicale cominciarono a scricchiolare, per cui i manager dovettero correre ai ripari in fretta e furia, per accapparrarsi i nuovi mercati (che sarebbero stati per un po' nella New wave) prima che lo facesse qualcun altro. Questo contribuì a chiudere ancora più in fretta il capitolo "Disco" prima ancora che qualcun altro potesse aggiungere qualcos'altro. Per fortuna solo in America. In Europa invece il genere avanzava che era un piacere. Il singolo che apre la Disco Italiana ai mercati esteri sarà quello di un gruppo romano col nome di una discoteca molto frequentata dai gay ("Easy Going") intitolato "Baby I love you". Un altro artista italiano, impiantato a Monaco di Baviera, tale Giorgio Moroder, portava avanti il nome dell'Italia nel mondo della Disco, tanto da creare un genere avanguardistico chiamato Eurodisco (oggi evoluto in Hi-NRG). Di lì poi la Disco Italiana (nata in un periodo in cui le canzoni cantate in Inglese facevano ganzo) sarà sempre più seguita.

Malavasi, il vero costruttore del genere, di lì a poco incontrò il produttore Italo-Americano Jaques Fred Petrus a cui daranno vita insieme a un loro primo esperimento, chiamato "Revanche". Ottengono un discreto successo con il singolo "You get high in N.Y.C" nel 1979. Petrus era un produttore che guardava all'orizzonte e al tempo stesso teneva d'occhio il mercato. Questo significa che faceva il suo lavoro, ma si dilettava a farlo con altri metodi, più ricercati ed esclusivi. La sua "elite" di produzione era composta da professionisti che conoscevano il loro mestiere ma che in qualche modo si distaccavano dalla massa. Il che diede vita a progetti molto sofisticati ma al tempo stesso maneggevoli e versatili, come la musica, vero scopo di un produttore musicale (non sempre rispettato, pensate alla techno...). Così, dopo avere accantonato i "Revanche", Petrus inseguì il suo ideale di "Disco music da ascoltare e non solo da ballare", soddisfatto in un primo momento col suo nuovo progetto, "Peter Jaques Band", nata nel 1979, che firmò, sempre con l'aiuto di Malavasi, classici come "Walking on music" e "Is it it?". Ciononostante l'effetto non soddisfò in pieno l'ambizioso produttore, che sentiva nell'aria ancora puzza di Disco ultracommerciale. Di fatto quindi cambiò le cose e ripartì da capo. Con un complesso chiamato appunto "Change". Assieme al già ben collaudato Mauro Malavasi, Jaques Fred Petrus scelse come compagnia per quest'ultimo il bassista Davide Romani e il chitarrista Paolo Gianolio. Assieme a questi strumentisti affiancò un ensemble di voci nere e un ancora anonimo e giovane Luther Vandross.

Con l'album "The glow of love", nel 1980 i Change esordirono. Proprio quando (almeno sulla carta) la Disco music in America era in putrefazione, in Italia nasceva ufficialmente la VERA Disco music Italiana, che influenzò non poco tutta la musica pop prodotta in Europa e, grazie alle performance vocali in Inglese di Vandross e co., anche oltreoceano. "The glow of love" fece non poco furore e imperò in discoteca e in radio per tutt'Europa. Lo stile era asciutto, preciso, leggero, studiato, elegante, curato nei minimi dettagli e, musicalmente parlando, un piccolo gioiello. I brani contenuti erano sei, un po' poche visti gli standard attuali di 9/12. Ma erano pieni di sostanza. Erano il giusto compromesso tra discoteca e club Jazz, tra radio e rarità, tra cult e commerciale. Certo fu che questa formula fece scalpore ovunque e sorprese per la sua precisione e il suo rigore. Davide Romani, bassista che assegnerà alla band un timbro musicale di basso tutto suo, dirà in seguito che gli Americani erano sorpresi, perché se loro avevano il timbro, noi invece avevamo il groove e la precisione. Tutto a vantaggio dell'Italia, della musica, della Band e naturalmente delle tasche di Petrus. Il basso presente e pompato, la chitarra "funkeggiante" e pizzicata, l'uso pionieristico dei primi sintetizzatori e drum machines, le sensibilità nere della voce dei cantanti e un groove onnipresente furono gli ingredienti tipici dei "Change". Il tutto unito al classico ingrediente segreto che ogni artista (in questo caso gruppo di artisti) ha. I brani, come ho detto in precedenza, sono sei, e sono:

  1. A LOVER'S HOLIDAY: uno dei momenti più belli dei "Change" fu anche il primo. Una linea di basso interlacciata con un pizzicato funky di chitarra, unito a un ritmo di batteria binario, forma il groove di questa canzone, sul quale muoversi e ballare. Il tappeto musicale sul quale si muove tutto è fatto di un sintetizzatore sinuoso, mentre gli accenti sono sottolineati da accordi al pianoforte. Degli ottoni a un certo punto riempiono un ponte tra ritornello e strofa. Delle accennate ma indispensabili percussioni tengono i 4/4 e voci perfettamente sincronizzate si tendono a solevare la voce del solista in alto sulla melodia che canta "Holliddayyyyyy....". Un pezzo perfetto sotto ogni punto di vista, anche quello del fanatico rock, del critico o del comunista. Arrangiato da Malavasi e Romani, non dimostra l'età che ha.
  2. IT'S A GIRL'S AFFAIR: i Change tornano alla Disco music meno influenzata dal Jazz e più rockeggiante con questo singolo. Gli slap di basso sono portatori del ritmo sopra alla cassa in 4, mentre la chitarra in flanger svolge la funzione del sintetizzatore di "A lover's holiday". La voce della solista invece porta la melodia. Le sonorità ricordano vagamente gli Chic di Nile Rodgers e Bernie Edwards. E' il singolo che non poteva mancare in un'epoca dove in Europa la Disco era un'onnipresenza. L'inizio è accattivante e lo sviluppo è appagante. Indispensabile.
  3. ANGEL IN MY POCKET: ma ditemi, sopra a un groove del genere, chi non si metterebbe a ballare all'istante? La linea di basso sembra essa stessa la batteria. Niente è lasciato al caso, gli archi classici si incontrano una delle prime volte con i sintetizzatori sperimentali e bionici dei primi anni '80. Questo gia basta a rendere questa hit un vero cult.
  4. THE GLOW OF LOVE: fu un tormentone di quell'anno e ancora oggi fa rabbrividire. Fu il vero trampolino di lancio di Luther Vandross, che si fece conoscere per quei magnifici falsetti che ci ha regalato in questo singolo da urlo. Linea di basso in loop usata come tappeto, chitarra pizzicata di contorno, batteria pompata e utile al groove, archi sublimi che avvolgono l'ascolto, assieme a dei timidi sintetizzatori sul finale. Il meno ballabile e più ricordato singolo di tutto l'album. Un capolavoro assoluto.
  5. SEARCHIN': pezzo pionieristico con lo stesso scopo di "The glow of love" ma più ballabile e sperimentale. La linea di basso per la prima volta è sintetica, perdipiù in loop. Il contrasto che la voce di Vandross fa con le percussioni strillanti, la batteria iperpompata e asciutta (molto di moda all'epoca) e gli strumenti classici come gli archi è unico. Un pezzo veramente ragionato, anche nel testo (sempre in inglese, lo ricordo) e con lo sguardo in avanti. Il singolo più ricordato dopo "The glow of love".
  6. THE END: per concludere un album del genere, un brano che si intitolasse "the end" ci voleva proprio! Il bello è che non somiglia a nessun altro dei precedenti. Se "Searchin'" ne aveva un po' anticipato i timbri, il panorama cambia completamente all'ascolto. Il pezzo consiste in sei minuti di evoluzioni elettroniche pionieristiche e avanguardistiche alla Giorgio Moroder. Chitarre, archi, voci e bassi sono stati tutti sostituiti dal sintetizzatore, che trasporta l'ascoltatore nella sua dimensione futuristica. Questo pezzo è forse il più "cult" di tutto quanto l'album. Un finale più che degno di un album degnissimo, proteso in avanti nascosto sotto a una coltre di musica rigorosa, pulita e precisa. Altro che tutti quei "Parental control" fuori dai dischi. Non dovrebbero mai pubblicare robaccia etichettata come "explicit content". Gli artisti di tutto il mondo dovrebbero prendere esempio da quest'album. E non discutere.
Il disco vendette migliaia di copie e vende ancora oggi, grazie alla ristampa dell'album da parte di Warner Bros. Peccato che non fui il primo a portarmi a casa questo capolavoro, eccellente dall'inizio alla fine, un disco da antologia.
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