Qualcuno di voi conosce Chantal Akerman? Io no, almeno fino a poco tempo fa. Il suo nome però sembra risuonarmi dagli anfratti della memoria come un nome da cui arriva un odore –un profumo – come quello delle pagine dei libri quando li sfogli, un nome che suona bene, che sa di cinema. Non so se la Akerman sia famosa, o quanto e in quali ambienti lo sia, ma la cosa mi incuriosisce, quindi se qualcuno lo sa magari batta un colpo.

Je, tu, il, elle. Io, te, lui, lei. Il film è in francese, e la copia in cui l’ho visto io era in lingua originale, con i sottotitoli in olandese. Sorrisone perché io non parlo nessuna delle due lingue ma capisco un po’ di entrambe, e ovviamente i film vanno visti in lingua originale, e soprattutto se sei pigro e non ti va di cercarti almeno i sottotitoli giusti ti arrangi, posto che ci siano. Comunque il film l’ho visto alla fine, così com’era, e quello che vi farò è una recensione, se così vogliamo chiamarla, di quello che ho visto e di quello che ho sentito, nel senso stretto della parola, scevro, diciamo, da sovrastrutture di significato.

C’è una ragazza di spalle in una stanza, seduta di lato rispetto all’inquadratura. La ragazza sta scrivendo. Scrive una lettera, poi – in ordine sparso – si siede sul letto, sposta il materasso di lato, si rannicchia per terra in un angolo e continua a scrivere, mangiando con un cucchiaino qualcosa che non capisco cosa sia. Poi l’inquadratura cambia, e lei sta disponendo dei fogli per terra, li riordina, si sdraia, dorme, si spoglia, mangia di nuovo. C’è una scena molto bella, in cui la ragazza, seduta sul letto, mangia dalla stessa busta di prima, poi si interrompe, e la busta si inclina, facendo rovesciare il suo contenuto – che è zucchero, come mi conferma un suono familare, un sucre confermato da una parola scritta che assomiglia a quel suono o a quello di una parola simile. I granelli continuano a scorrere per lunghi secondi, mentre lei guarda di lato, poi se ne accorge, e, senza rompere quella sospensione temporale, con la stessa lentezza li raccoglie, e manciata dopo manciata li ributta nel pacchetto, poi, senza aver terminato, si ricorica di nuovo e così rimane. Il tempo passa scandito dalla voce narrante, che parla in prima persona e descrive le azioni che compie, come un’autodescrizione dai toni bassi, delicati e sensuali. Da qui capisco che passano giorni, e lei rimane in questa stanza senza muoversi – a volte davvero – ma soprattutto senza uscire all’esterno, e la sua silhouette nuda si staglia in controluce contro la finestra aperta, fuori di cui cade la neve – forse, ora che ci penso come quello zucchero, che scandisce un tempo esteriore, che rimane però immobile nel microcosmo della stanza.

Ci sono due caratteristiche, che, secondo me, caratterizzano film come questo (ndr: con ''come questo'' si intende indipendenti/sperimentali): la dilatazione temporale, coadiuvata da inquadrature fisse e lunghe che fanno crescere in te che guardi l’attesa di qualcosa che pensi stia per succedere e che nella maggior parte dei casi non succede, o è un dettaglio, a cui, se lo noti, finirai per attribuire un significato, magari anche forzato; e una certa irrealtà delle azioni, dovuta al fatto che i gesti, i comportamenti, le reazioni dei personaggi agli eventi sono irrealistici, almeno basandomi sulla mia personale esperienza del mondo. Forse è la lentezza delle azioni stesse, quel loro essere sospese in questo tempo a sé, e l’assenza di dialogo, di un botta e risposta immediato, che creano questa sensazione.

La ragazza alla fine esce dalla stanza in cui era all’inizio, e che è probabilmente la sua: fa l’autostop, e sale a bordo di un camion guidato da un ragazzo. I due – guarda caso – non parlano. All’inizio credevo che il film fosse girato in America, e che la ragazza – un po’ come la Akerman, a quanto so – fosse straniera, e non parlasse l’inglese; in una scena successiva però i due si fermano in un bar, in cui si sente parlare francese, e capisco che no, evidentemente non è che non sappia parlare, lei non vuole parlare, o meglio ancora, l’assenza di dialogo è dovuta a una scelta puramente estetica . Solo dopo ho visto che la ragazza, l’attrice, è Chantal Akerman stessa (no, non ricordavo che faccia avesse) e ho pensato che nella storia ci fosse non so se un dato autobiografico, ma una cifra molto molto personale: la nudità, l’intimità delle scene sembrano una finestra aperta sul suo mondo privato di cui quello che vediamo è però solo la forma, l’apparenza. Noi vediamo solo delle scene, delle azioni, che sono solo dei risultati esteriori, e quello che ci chiediamo infatti è perché fa questo, perché fa quest’altro, cosa prova? Ecco, questa è una domanda che viene sempre elusa da quel sorrisetto stampato sulle labbra, che non lascia trapelare emozioni. Vediamo quello che abbiamo davanti ma leggere una parola non vuol dire capirne il significato. Come guardare un film, magari anche in una lingua che non capisci. Io sono molto molto di parte perché questo è uno di quei rari casi in cui sento una sensibilità femminile in cui mi identifico, che io chiamo ''femminile'' ma che forse nemmeno lo è, o forse non vuole esserlo, ma io ci vedo una componente sincera, intrinseca, e allora identifico nel genere il trait d’union che ho trovato ma a cui non so dare un nome. Quindi, rimanendo in tema, se hai visto o vedrai il film, ti tornerà in mente il titolo, e ti chiederai: chi sono je, tu, il, elle? Chi è tu? Chi sei tu? Sono io? Io che vedo il film o lei? O lui? O entrambi? Non saper dare un nome alle persone le rende vaghe e indefinite, e noi non sappiamo distinguere fra l’una e l’altra. Semanticamente e non solo.

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