Terra d'Albione: terra di archetipi e terra di derivativi.
Che i londinesi Chapel Club abbiano tirato alle lunghe dal 2010 centellinando le uscite dei loro deliziosi singoli ("O Maybe I'', "All The Eastern Girls'') smuovendo il classico polverone mediatico che si alza sempre attorno a queste trovate pubblicitarie per giovani astri indie nascenti è cosa ormai nota.
Che da derivativi quali sono se ne siano usciti con un disco, il loro primo "Palace", validissimo a tratti eccellente non è invece cosa ovvia. Per niente. Indiepatici di matrice dream-pop, seguaci di certa 'wave' romantica mai del tutto dimenticata (The Smiths, Echo & The Bunnymen, Slowdive, My Bloody Valentine), i Chapel Club cavalcano l'ondata di epigonismo shoegaze con carattere e personalità; uno shogaze però da considerare non nella sua accezione musicale più profonda: feedback devastanti e muri di suono alla My Bloody Valentine, bensì da intendersi maggiormente vicino a quello più poliedrico dei Ride e di stampo '90.
11 tracce malinconiche a metà strada fra sacro e profano a volte prolisse nei testi o nell'uso eccessivo di metafore e intimismi ma melodicamente ben strutturate. Nebulosi, fumosi e sfumati da chitarre schiumosamente latenti, questi 11 brani scivolano acquosi in uno stagno di emozioni umide e di bassi smarriti diluendosi lentamente in un pantano di echi Morrisseyani (le bellissime "The Shore" e "Fine Light") tanto presenti quanto gli strascichi dark vocali e sonori di tutto il più recente filone 'new/new wave' dei vari Editors e White Lies ("Surfacing" e "White Knight Position" sembrano uscite da 'To Lose Myself') o dei liquescenti e più recenti Arctic Monkeys (vedi la paludosa e onirica "Paper Thin") dove il registro vocale sembra provenire dal più sentimentale Alex Turner.
Ce n'era bisogno chiedo io? Magari no direte voi ma di 'revival' a volte è così bello godere. 3.5 perchè in finale tutto questo barcollare fra reminiscenze sonore ci piace. 3.5 perchè dopotutto wavers fino al midollo lo siamo sempre stati anche noi.
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