Con questo inusuale romanzo il "grande sporcaccione" chiude (quasi) definitivamente la leggendaria saga dell'alter Henry Chinaski e lo fa sui modi, calando uno strano sipario che ai bukowskiani dell'ultima ora parrebbe un qualsiasi escamotage letterario e agli apprendisti barflies un autentico shock di commiato. L'epopea di Chinaski/Bukowski, diramatasi in un intricatissimo labirinto di romanzi e racconti nei quali il triangolo si/no donne-bicchieri-strada rappresentava il principale leit motiv nonché l'emblema unico, termina dunque con una sorta di cesura mascherata da continuità di tale flusso vitale-argomentativo, una rottura col passato pur senza mandarlo in piccolissimi frantumi, un voltafaccia al lifestyle dell'ubriacone-poeta tuttavia non completo e completato.
Hollywood, Hollywood, penultimo lavoro prima del favoloso "requiem" di Pulp (un vero e proprio testamento ricapitolativo delle sue produzioni, dei personaggi e del backround narrato) non è altro che la versione romanzata del travaglio produttivo, organizzativo e gestionale per il lungometraggio "Barfly" cui proprio Bukowski si occupò della sceneggiatura. Qui Chinaski, ormai accasato, ammogliato (!) con Sarah, detentore di un'esistenza sufficientemente confortevole e abbiente, lontano (ma non dimentico) dallo squallore "poetico" delle suburre losangeline, viene contattato dal regista Jon Pinchot (alias Barbet Schroeder, fautore del reale Barfly) per redigere la sceneggiatura di quello che sarebbe diventata l'autobiografia un po' romanzata e mitizzata del poeta maledetto. Benché titubante e incerto, Chinaski predispone il copione de La Danza di Jean Beam. Passerà comunque un bel po' di tempo prima che la creatura chinaskiana giunga sul grande schermo: fra le tensioni di Pinchot (che tuttavia apprezza e crede nel progetto), le croniche difficoltà nell'adescare produttori e finanziatori acquiescenti e interessati, la mancanza di fondi per far partire le riprese e il duro lavoro di selezione degli attori, La Danza di Jean Beam tarda a ricevere un degno battesimo. Superati gli ostacoli, il film diviene realtà e, seppur con una polarizzazione della critica, conosce un ottimo successo al botteghino.
Come già detto, Hollywood, Hollywood interrompe la sinusoide accidentata del cammino bukowskiano e lo fa nella maniera più curiosa e bizzarra che ci possa essere. Finiti, dunque, i tempi sgangherati e bui del Chinaski costretto a passare da un lavoro all'altro nell'arco di poche ore, immerso nell'alcol e nella pura carnalità del naturale, il dissacratore dell'american dream pare essersi pigramente accovacciato nella filoborghese alcova dei letterati arricchiti, un autentico schiaffo per coloro che credevano nell'eterno ubriacone dalla penna magica, nello re del cinismo e nell'imperatore dello scetticismo: via il classico harem di donne facili, disinibite, nonché l'incubo delle ricorrenti femmes fatale, addio alle panchine-bivacco, ai parchi insozzati e agli impieghi capestro, saluti alle vecchie, scassate, rattoppate automobili. Eppure Henry, benestante quanto occorre, finalmente monogamo, acquirente persino di una BMW fiammante, cerca di rifuggere dalle comodità pacchiane e consumiste del tanto odiato clima borghese: chi meglio di lui può trasporre filmicamente le disavventure del barfly più celebre di L.A. e degli Stati Uniti?
Ed è così che Chinaski, immerso ma non sentimentalmente coinvolto nella forgiatura de La Danza di Jean Beam, si trasforma nell'esegeta di se stesso, pur accettando lo scomodo compromesso con la borghesia imprenditoriale, i capi major, le starlette della pazzerella Hollywood eighties e i gusti della massa acritica, riduttivista, sempliciotta, presuntuosa e malandrina. Lo fa, ma senza crederci molto, stendendo quasi in sordina la sceneggiatura di un futuro cine best seller, frapponendo questo incarico alla prosecuzione del proprio estro poetico salvifico, come pure al minimo di "gozzoviglie" alcoliche ancora concessosi. A pellicola montata, distribuita e premierata nelle sale gremite di critici, attori famosi e membri del popolino, Henry sperimenta (temporaneamente) l'ultima delle sue trasformazioni, una vera e propria nemesi-presa in giro, ovvero la discesa nel ruolo del borghese arricchito. Memorabile, al riguardo, è il suo arrivo alla premiere de La Danza di Jean Beam su una limousine con tanto di champagne e altri comforts inclusi da lui richiesta. Henry Chinaski, il poeta che alloggiava nelle bettole fetide delle suburre più lontane dal luccichio di Hollywood, è stato in grado di scavalcare se stesso, di sottomettere propria indole alla rudezza e alla sciattoneria al gusto pacchiano dell'imprenditoria chic appositamente per deriderla, per sbafare in modo buffo e divertente a spese di quei borghesi finto alternativi e pseudo non convenzionali che l'hanno arricchito.
Come salutare egregiamente il grande Chinaski se non vederlo spaparanzato su un "limo" a bere champagne in attesa di flash, red carpet e posti in prima fila? Un epilogo un po' strampalato, spiazzante, magari deludente e amaro per i soliti abituè, comunque foriero di sorrisi a mezzaluna stampati sui veri aficionados dell'ineffabile e mai prevedibile vecchio sporcaccione.
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