In questa complessa era di crisi economico-finanziaria, di capitale liquido e virtuale che si volatilizza al nanosecondo, di masse di borghesucci pseudo-azionisti con la gocciolina si sudore salino che gli cola dalla fronte ruvida ogni volta che lo spread si impenna vertiginosamente e i rendimenti in Borsa calano desolatamente, l'immaginario collettivo della trasfigurazione da ricco industriale a fallito/poveraccio con destinazione mense della Caritas e squallide bettole per reietti dalla società è ancora vivido e diffuso: intontiti dalle produzioni simil-hollywoodiane che illustrano la scalata al successo e la discesa negli inferi dopo il crollo di Wall Street, esasperati dai media che in maniera assolutamente manicheista evidenziano solo il nero e il bianco della realtà post-industriale, paventiamo un triste panorama apocalittico fatto di piogge acide, baracche, barboni, città abbandonate, spiriti defunti.
Eppure, leggendo le voluminose pagine di Bukowski, la sporcizia di cui sopra c'è, si vede e si gode: in un mondo che pare un'immensa latrina di debosciati, metropoli statunitensi che paiono essere solo residenza di beoni e "fallen men", il "vecchio zozzone" per eccellenza ci sguazza che è una meraviglia. Anticonformista senza tuttavia schierarsi politicamente nella minaccia rossa, contro-capitalista eppure amante dello sperpero (quando questo è possibile), Bukowski si auto-inserisce all'interno di un contesto di sesso, depravazione, deviazioni psico-mentale, alcool a fiotti e fiumi ed estrema miseria, realtà che in certi versi rimembra la malefica nemesi in uomo-lupo dell'opera di De Sade, Le Centoventi Giornate di Sodoma, ripresa da Pasolini nello scabroso Salò. Ma, a differenza di De Sade e Pasolini, Bukowski non intende assolutamente attuare una disastrosa metamorfosi da umano a cavia, da essere razionale a bestia più selvaggia, assassina e scellerata: l'atto sessuale, seppur privo di amore, sentimento, passione iperuranico-trascendentale, è certamente ridotto ad una dimensione gretta, grezza, ruvida, basso-carnale, addirittura psicotica, ma la componente di morte e annullamento delle membra operato dal sacerdote-carnefice sadiano/pasoliniano è quasi del tutto rigettata a favore di un piacere regolare, di un appagamento normale che diventa prassi consolidata nella filosofia del "porco" bukowskiano.
Storie di Ordinaria Follia è una lunga raccolta di narrazioni semi-autobiografiche le quali possono essere utilizzate come utile compendio per la comprensione di lavori decisamente più compatti ed univoci, in primis Taccuino di un Vecchio Porco, Panino al Prosciutto e Pulp. Una Storia del XX Secolo. Dentro queste mini storie Bukowski è contemporaneamente presente e assente, c'è, va e viene senza tuttavia provocare al lettore fastidio, stupore o angoscia per tale condizione. I racconti rappresentano perdipiù la parabola ascendente/discendente dell'autore: un uomo di lettere, scrittore e poeta famoso per la sua stravaganza e per i suoi eccessi che invece di godere razionalmente dello status di fama e celebrità consegnatoli dal pubblico, preferisce abbandonarsi alla miseria, all'alcool, all'eterna peregrinazione alla ricerca di un impiego fisso e/o di un lavoro occasionale che raramente manterrà. Ma è proprio Bukowski, poco incline a imitare gli artisti della sua generazione (eccettuata la stima che ha nei confronti del compagno anticonformista-reazionario, sebbene politicamente schierato, Ernest Hemingway), a voler condurre una simile scialba esistenza, a non accettare mai di stabilizzarsi in un guscio protettivo fatto di famiglia felice - professione stabile - soldi a palate. Un po' dandy incallito, un po' ribelle confuso, un po' decadente-scettico-finto esistenzialista disicantanto da lusso e prospettive di serenità e magnificenza, Bukowski rimane se stesso, mantiene l'innata, congenita pazzia creativa che gli consente di pubblicare sia raffinate opere, ma anche di gettarsi a capofitto nella redazione di articoli per riviste alternativo-indipendenti come la famigerata Open Pussy.
A regnare imperituro in Storie di Ordinaria Follia è il sempiterno trittico alcool-sesso-scrittura, contesti peraltro funzionali l'uno per l'altro: l'eccessivo trincare birra e liquori nelle bettole più infime degli USA oppure nei sudici appartamenti/alberghi in cui occasionalmente risiede precede quasi sempre un attivissimo tenore sessual-erotico (il cosiddetto "chiavare") svolto con donne della peggior specie, depravate e sadiche, zoofile e mascoline, bambole gonfiabili ante litteram e "macchine del sesso" che il realtà sono prostitute svuotate di qualsiasi componente morale-razionale da parte di padri aguzzini filonazisti. E questa "infame" mescolanza di birra e "fica" fa pervenire l'autore al magnum opus della poetica, ad uno stile di narrazione simil-joyciano in cui la punteggiatura è assente, l'oggettività della narrazione si alterna irregolarmente a pensieri spezzati, insulti, parole senza un immediato significato, un flusso di coscienza postmodernista perfettamente adattato ai mali più reconditi dell'America bigotta, perbenista e buonista la quale tuttavia scalpita per farsi strappare da questo folle ninfomane editoriali, poemi, versi, sonetti, storielle sudice. E Bukowski, da astuto opportunista, riesce spesso a salvarsi da decadenza fisica certa (vedi i ricoveri in ospedali, le emorragie da eccesso di alcool, i malanni vari) ammaliando signore e signori d'alta classe che ripongono nel cassetto il loro curriculum di plasticosa ipocrisia moraleggiante e accolgono una sorta di nuovo Siddharta, un profeta sporco, poco loquace, beone e antieroe che tuttavia è in grado di completare il cubo di Rubik estremamente sfaccettato della nuova contemporaneità occidentale.
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