Inizia come The Black Saint And The Sinner Lady, composto pochi mesi prima. Uguale. Stesso giro, stessa melodia. E poi se ne va altrove. Da un'altra parte. Qui si chiama Myself When I'm Real.
L'anno è sempre il 1963. Io - invece - per anni, ho ritenuto fosse un disco più tardo. Che fosse legato alle condizioni fisiche di Charles. Lo so che alla fine della sua vita non era più in grado di portarsi dietro il contrabbasso.
(Che brutto deve essere stato - Charles - andarsene così. Perdere energie. Ogni giorno. Per uno che definirlo un vulcano, un ciclone, una forza della natura, è sempre stato solo sminuire. Finire che non riesci più a muovere nemmeno un dito.)
Invece no. È un disco di un Mingus che sta bene questo qui. Un disco che - come spesso succede quando si ha a che fare con un genio - è qualcosa di completamente diverso da quello che ti aspetti.
Mingus, certamente, è mille cose. Mille persone, mille idee. Però anche una stessa. Prendete Phitecantropus, ad esempio (e magari concedetevi pure il piacere di riascoltarlo). È una furia, un treno in corsa, un uragano. È mille variazioni, improvvisazioni, grida addirittura. È un uomo. È come dire questo sono io. Tutto questo, tutto questo magma, incandescente, incontenibile. Questo.
È però, anche e soprattutto, ritmo. Se uno non lo sapesse non farebbe fatica a capire che lo ha scritto un contrabbassista. Perché sembra proprio un po' quello il segreto, di quella meraviglia lì. Che sempre, sotto alle grida, sotto all'urlo della terra, c'è un contrabbasso, che comanda a bacchetta tutti quanti. Che guida e che conduce. E che richiama all'ordine. A un ordine certo bizzarro, certo irripetibile. Un ordine, in tutto questo caos. Un ordine che si chiama Charles Mingus.
Qui, invece, no. Qui, ad ascoltare bene, ci si rende conto di una cosa. Che ci sono temi, magari conosciuti, magari qualche standard (come Body and Soul, come I'm Getting Sentimental Over You) che riconosci, e qualche cosa nuova, qualche cosa sua. Ma che c'è una cosa che manca, totalmente.
Il ritmo.
Beh, non lo so voi, ma a me fa anche un po' tenerezza immaginarlo, Charles, mentre lo suona, il pianoforte, con quelle ditone, abituate a violentare le corde di un contrabbasso. Tutto da solo, in uno studio, lui e un pianoforte. E mi chiedo anche se sia riuscito a resistere per tanto tempo, seduto, e quasi tranquillo. Tranquillo? Mingus e tranquillo. In una stessa frase. Strano, davvero strano.
Come strane, davvero strane, sono le versioni dei pezzi che presenta. Sembra, ad ascoltare bene, sembra che sia un disco di Mingus che pensa. Che prende dei pezzi, qualcuno famoso, qualcuno suo, e lo spoglia. E lo mette lì. E lo guarda. E comincia a ragionarci sopra. E a scoprirci qualcosa. Qualcosa di diverso, di geniale. E poi lasciarlo lì. Lasciare lì quell'idea, magari per il futuro, magari per chi verrà dopo. Lasciarla lì, e passare ad altro. Ad un'altra idea, ad un'altra cosa. E il ritmo, quello che manca, quello che non senti nel mezzo dei brani, è un altro. È il ritmo dei suoi pensieri. Soltanto quello. Come un negativo di Pithecantropus, là il ritmo, la cavata del basso, era il cuore di Mingus che batteva. Era quello che teneva insieme il tutto. Qui è il suo pensiero.
Ecco, una cosa così. Strana e difficile. E bella. E misteriosa. E unica.
Un disco di Charles Mingus, che è mille persone, mille idee, mille cose. E anche una sola. E io - sbagliando, ma forse non lo so - ho sempre pensato che questo fosse Mingus, quando, in Messico, ormai incapace di muoversi, se ne stava lì, e la sua testa vagava. Questo, questa roba qui. Strana e difficile, bella e misteriosa. E unica.
Mingus che suona.
Piano.
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