Di sicuro non mancano i dischi di Charles Mingus a casa di ogni appassionato di jazz; meno probabile che ci sia proprio questo “Reincarnation Of A Lovebird”, ma non perché sia opera di trascurabile interesse. Anzi. Testimonia dell’unico passaggio di Mingus in sala di registrazione negli anni tra 1965 e il 1972. A leggere la sua biografia, un periodo per lui certamente non facile dal punto di vista economico e pure di stasi creativa (e di depressione psicologica) dopo la perdita di un talento unico come Eric Dolphy.
Qui siamo dunque di fronte al Mingus nella “terra di mezzo” tra le opere fondamentali degli anni 50 e primi 60 e gli ultimi graffi di qualche anno dopo, il periodo di “Changes One & Two”. Ebbene questa riedizione della Prestige Records di due precedenti album francesi del 1970 ci fa capire pur in quel momento di ripensamento e di apparente ripiegamento quanto ci sia intrinsecamente di buono nella musica di Mingus e quale sia stata la sua forza trainante e coagulante di band leader.
In assenza di nuove composizioni (forse la sola «Love Is A Dangerous Necessity», che però nel finale è un poco tirata via, quasi la partitura fosse ancora incompleta) il materiale sonoro è costituito dalla rivisitazione di classici del suo repertorio come «Peggy’s Blue Skylight»; la title track «Reincarnation Of A Lovebird» e l’identitaria «Pithecantropus Erectus» oltre che la parkeriana «Blue Bird» e uno standard del crooning come «I Left My Heart In San Francisco» che ho messo nel link qui accanto. Il risultato è una musica smagliante e variegata, ricca di accelerazioni improvvise e di suoni contrastanti che di colpo si placano per poi rincorrersi ancora. Un caleidoscopio sonoro che occhieggia il free ma non dimentica la tradizione; a tratti un’improvvisazione collettiva le cui briglie restano però saldamente in mano a Mingus come le corde del suo strumento: valga come esempio la splendida «Peggy’s Blue Skylight», dove tutti i solisti hanno ampio margine per esprimersi e poi ricongiungersi alla melodia del tema principale mentre il pulsare del contrabbasso non molla mai la presa e mette i puntini sulle «i» di ogni discorso.
Tra i musicisti vorrei segnalare il prezioso lavoro per la sezione ritmica – oltre al leader naturalmente - di Jaki Byard al piano (con Mingus fin dai tempi di “The Saint And The Sinner Lady”) e del fedelissimo Danny Richmond alla batteria. E poi ci sono i tre fiati: Charlie McPherson al contralto (certo non è Dolphy); Bobby Jones al tenore e Eddie Preston alla tromba, che nell’alternarsi delle parti soliste con quelle in ensemble rimandano la musica di Mingus alla lezione orchestrale di Ellington.
Insomma un disco musicalmente eccellente e moderno, corredato da una grafica esauriente per quanto riguarda le informazioni tecniche sulle registrazioni originali (Parigi, novembre 1970 per i due LPs “America Records 6109 & 6110” circolati fino a quel momento solo in Francia) completato da una interessante nota introduttiva oltre che da due splendide foto di Mingus in copertina. Uno specially priced two-record set cui sono particolarmente affezionato per essere stato tra i dischi di jazz uno dei miei primi acquisti e capace di emozionarmi ancora oggi.
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