Dopo Ross Jennings anche il chitarrista Charlie Griffiths approfitta della pausa degli Haken (che hanno ormai già annunciato il ritorno previsto per marzo) per sfornare un disco solista. Ed è una delle sorprese dell’anno, perché non è esattamente da un lavoro solista che ti aspetti il disco particolare ed ispirato.

Possiamo dire che Griffiths rappresenta l’anima più metal degli Haken, sono solitamente sue le parti più pesanti del gruppo, è lui il motore ruggente e ritmico, mentre Richard Henshall è più compositore a 360°, essendo di fatto la mente del gruppo. Il lavoro solista di quest’ultimo uscito nel 2019 presentava infatti più varietà stilistica. Questo debutto solista di Griffiths invece è decisamente pesante ma nel vero senso della parola, sembra confermare quelle che sarebbero alla fine solo supposizioni.

Per poter apprezzare “Tiktaalika” bisogna avere un orecchio mediamente predisposto per un certo prog-metal estremo e tecnico, altrimenti potrebbe risultare ostico se non addirittura fastidioso o noioso. Ma il progmetaller come Dio comanda dovrebbe mettersi in testa che esiste anche un lato estremo del genere ed apprezzarlo nella sua natura.

Azzardando dico che le fondamenta sono addirittura thrash metal, parlare di technical thrash non lo trovo sbagliato. La chitarra a volte picchia come un martello pneumatico e lo fa senza pietà, con una carica quasi industriale, a volte sembra davvero di stare in un’officina meccanica; ci si mette poi anche il basso, personalmente non avevo mai sentito un basso così affilato, diciamo che se la chitarra è il martello il basso è una lama rotante. Non lo paragonerei però ad un certo tech metal di fine anni ’80, o meglio, lo farei, sento che potrebbe piacere a quella frangia ma non ha il suono vintage dei Watchtower o dei primissimi Sieges Even, piuttosto ha un qualcosa di Meshuggah o persino Fear Factory. I brani mantengono un tiro micidiale per più o meno tutta la loro durata e sono un vero e proprio tornado sonoro che letteralmente risucchia l’ascoltatore, non facendo nemmeno pesare l’eventuale lunghezza.

L’aspetto virtuosistico tuttavia fa la differenza, senza di esso sarebbe solo un disco thrash metal tirato per le lunghe. Non si tratta però di un virtuosismo sfarzoso ed esibizionista, nulla che riconduca ai Dream Theater, per dire, si maneggia sui tasti del manico con perizia e velocità ma tutto si confonde nel tessuto sonoro martellante, è come se quel virtuosismo spezzasse il ritmo ma giusto quel tanto che basta, una piacevole e lieve serie di scosse telluriche che rendono la musica frastagliata e avventurosa.

Presenti anche parti di tastiere ma la lieve presenza sembra abbastanza superflua, quasi una forzatura, un’impurità che non era davvero necessaria; ma non fa affatto schifo l’assolo del virtuoso dei Dream Theater Jordan Rudess in “In Alluvium”.

Guai però a pensare che non ci siano cose un tantino diverse dal solito technical metal. Qua e là spuntano parti acustiche mai troppo pronunciate ma efficaci, è possibile trovare qualche inserto jazz/fusion come quello clamoroso di “Luminous Beings”, cattura l’attenzione anche l’uso del sassofono in “Dead in the Water”; poi abbiamo il brano non metal, “Digging Deeper”, basato su arpeggi spigolosi e percussioni elettroniche massicce, ricalca molto certe sonorità dei King Crimson degli anni ’80 e successivi.

Senz’altro uno dei dischi sorpresa del 2022, non un prescindibile disco solista ma un esempio fresco ed altisonante di prog-metal estremo. Vivamente consigliato.

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