La storia del jazz è costellata da una interminabile, dolorosissima serie di buchi neri.
Sono le live sessions mai incise, o quelle andate perse, oppure irrimediabilmente rovinate. Sono quei momenti in cui le leggende calpestano il palco, la magia pervade la sala, le note disegnano il Capolavoro, e la luce si accende. E lì sei dentro o fuori, se ci sei partecipi all'incanto, altrimenti ti struggi, perchè tutto accade una volta sola, il vuoto non è colmabile. Ma al mondo ci sono anche i cieli azzurri e i verdi pascoli, te ne ricordi quando zelanti e fortunati omini della Uptown estraggono dal chissàdove una registrazione fenomenale, e il 22 giugno 1945 diventa d'incanto luogo di tutti.
Da circa un anno la musica del futuro viveva una frenetica incubazione. Ci mette del suo l'aria di New York, il Minton's, o la 52esima strada. I padri, i visionari del tempo, sono tutti lì, Monk, Gillespie, Bird, Miles, tutti a passare da un club all'altro strumenti alla mano, un'ininterrotta, convulsa jam session, neri loro nel nero della notte. Qualcuno si prese briga di dare un nome a ciò che stava accadendo: be-bop. Molti lo irrisero, altri se ne lasciarono incendiare.
La Town Hall fu quel 22 giugno il prestigioso palcoscenico per l'ingresso in società del bebop: che vi piaccia o no, qui c'è gente che suona maledettamente veloce, gente che è miglia avanti, poi fate voi se vi va di stargli dietro. Un migliaio di beta-tester erano lì, al cospetto di cinque alieni: Dizzy Gillespie (tromba), Charlie Parker (sax alto), Max Roach (batteria), Curly Russell (basso), Al Haig (piano). Essenziale è l'opera dello speaker, Symphony Sid, l'uomo che per primo ha passato in radio i boppers, è lui l'officiante. Si parte, una spolveratina agli smoking, che il salotto è di quelli buoni, un bel respiro e si entra in scena, senza paura, che i migliori siamo noi, ma Bird, dov'è Bird? Bird non c'è, come sempre, Bird non c'è mai quando dovrebbe, i tempi smodati della sua anima mal si accordano con quelli comuni, ma chi avrà mai inventato gli orologi, o il senso della misura? Così il cammeo d'ingresso è di Don Byas. L'inconveniente si trasforma in una pregiatissima chicca: lo speaker annuncia il "Dizzy Gillespie Quintet", e informa del ritardo di Charlie Parker. Trovo commovente il benevolo e sconfortato disappunto del pubblico, (ah, il solito Bird, grande ma incorreggibile), nonchè l'acclamazione che lo accoglie quando durante il pezzo arriva, immagino ancora ansante, sovrapponendosi a Dizzy da par suo. Delirio. Tutto qui, tutto inciso, tutto durante "Be-bop", più di mille biografie, tutto vero, in presa diretta.
Potrei fermarmi qui, ma devo dirvi almeno di "A Night in Tunisia", masterpiece di Gillespie eseguito qui come altrove non si è mai udito. La tromba scolpisce nel vuoto circostante la rappresentazione più fedele del bebop, la vedi prendere forma di fronte ad orecchi attoniti, Parker gli libra attorno emettendo il suo canto più ispirato e sghembo, ma non volteggiava ancora fuori per le strade di New York due minuti fa? Beh, ormai procedo, d'altronde l'aria è della Hall è arroventata, Sid fa gli onori di casa, la voce è morbida e giocosa, la gente partecipa, si diverte, ma per forza, è colpa di Dizzy che entra così e scuote anche un sordo, perchè è l'aria che si muove, l'aria, perdio. "Groovin'High" va su, a sfidare la forza di gravità, e tutto lo swing di maniera del decennio precedente rinsecchisce d'un tratto, e il vento lo porta via. Le gaie scorribande al piano di Al Haig fanno qui magnifico contrappunto al furore degli ottoni, una delizia. Gillespie ed Haig intrecciano le loro trame, gareggiando a chi dipinge meglio la gioia, c'è da lasciarsi scoppiare il cuore.
Ho finora taciuto della splendida esibizione percussiva di Max Roach, ragazzo prodigio prima, padre del bop poi, mille volte insieme a Parker e si capisce il perchè. Lo stile è debordante, alcuni incroci coi fiati tolgono il respiro, Roach va oltre, ma che volete farci, aveva 21 anni alla Town Hall, e per giunta era un bopper, il migliore, bacchette alla mano. Il tempo folle di "Salt Peanuts" è il tappeto su cui distendere tutta la sua mercanzia, colpi furenti, irrazionali, veloci più di tutto, perchè bisogna fare in fretta, esplorare, che alla fine del viaggio manca poco. E poi la voce viva di Dizzy: "sa-lt pea-nuts, sa-lt pea-nuts", che meraviglia, la sua voce, quella che non passa per la tromba. Lo speaker, sempre più padrone della scena, annuncia Sidney Catlett, che entra in scena per Roach negli ultimi due pezzi. Catlett suona swingato, ma la classe che sciorina gli consente di proporre una raffinata variazione sul bop, con allegato un assolo del tutto liquescente. Il pubblico si diverte, Curly Russell pure.
Questo disco è un'apoteosi. È l'apice della titanica congiunzione tra i dioscuri del bebop, Parker e Gillespie, suffragati dal Roach più sanguigno. L'acustica impeccabile della Town Hall restituisce un suono assai migliore di molte registrazioni in studio dell'epoca, sembra di stare lì. Ma è solo illusione, solo un migliaio di persone erano lì, loro sì, al cospetto del nuovo, sospesi tra lo sgomento e il desiderio di sciogliere le briglie. La guerra è finita, l'aria è frizzante, dopo le bombe è sempre così.
Com'era bello.
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