Downtown Los Angeles è un qualcosa che sfugge ad ogni definizione. È unica e particolare, soprattutto quando incomincia a calare il sole e i lavoratori se ne escono dai propri uffici, lasciando i pochi grattacieli della città degli Angeli vuoti e illuminati, con il solo riflesso di luci artificiali, neon e ultimi raggi solari. È una cornice a suo modo perfetta per l'evento che vedrà luogo al Regent Theater. Camminando lungo le vie che costeggiano il nuovissimo The Broad si capitola immediatamente nei bassifondi e nel degrado urbano assoluto. Lo sguardo su Pershing Square è impietoso, con volanti della polizia e un senso d'abbandono metropolitano. Tutto ciò fa aumentare una sensazione surreale quando io e la mia amica ci avviciniamo a questo antico cinema che è stato rimodernato e rinnovato a sala concerti da un bel po' di anni. Negli anni '50, anni '30, mi spiega, era una delle sale cinematografiche storiche di Los Angeles e si chiamava "The National". Dopo un periodo di abbandono è stato rinnovato, pur cercando di mantenere l'atmosfera originale. Quindi mattoncini a vista, decorazioni art déco, palcoscenico attorniato da una struttura che dovrebbe incastonare lo schermo cinematografico, ma che ora ospita ogni sera artisti sopra artisti. L'esperienza sarà avvolgente, non si ha dubbi, perché la fila lungo Main Street, man, mano che scorrono i minuti verso le 21:00, si perde a vista d'occhio. Il concerto è sold out, ma definirlo concerto è riduttivo. I due protagonisti della serata vanno decisamente oltre. Si sta parlando di David Eugene Edwards, in arte il deus ex machina del progetto Wovenhand e lei, Chelsea Wolfe.
È impossibile non rimanere affascinati lungo le tre ore di concerto su cui si bilanciano David e Chelsea. È un evento dal sapore mistico e tocca allo sciamano dal Colorado aprire le danze. È un trip che inizia sotto i ritmi tribali dei nativi americani, con i tamburi che rimbombano e su cui si costruiscono energiche trame rituali. Non sto scherzando, per nulla. Vedere i Wovenhand dal vivo è uno spettacolo per gli occhi. Non si può che essere incantati dal mood di David Eugene, il quale non canta, ma declama i testi. Un portavoce che pare provenire d'altri tempi, nel suo liricismo intriso di spiritualità e religione. Un'apocalisse annunciata nel mezzo di una tribù navajo, con il deserto dell'Arizona o del New Mexico e un cielo stellato sullo sfondo. David è completamente assorto e posseduto. Chiude gli occhi, si lascia andare a gestualità da stregone. È come assistere ad una performance nella performance. Soprattutto ai Wovenhand piace far entrare il pubblico in sintonia con loro e quindi il set è a volumi altissimi. L'impatto è enorme, grazie anche all'aiuto dell'avere in gruppo due ex Planes Mistaken for Stars (radici post hardcore e smanicato di jeans con toppa di Jane Doe docet) che alzano lo spessore delle composizioni. Le chitarre riverberano e ruggiscono avvolgendo le profezie di David. È bellissimo vedere come il corollario portato sul palco per creare il set non sia solo meramente scenico, ma si tramuti nella proposta dei Wovenhand. Sto parlando di scacciapensieri indiani, delle foto di Toro Seduto, di tribù indiane, medaglioni e tappeti con decorazioni tipiche della cultura Southwest americana, dipinti alla Georgia O'Keeffe. È questo universo che piomba nell'ora di performance e mi rapisce totalmente. È un viaggio lungo paesaggi desertici e influenze roots che dipingono un affresco serpeggiante fra lidi mistici di redenzione e un blues elettrico dannato. Il set non era quello di un opener, ma di un'artista unico nel suo essere e che ha meritato ogni applauso che gli è stato riservato durante il concerto.
Il trip però non è finito, per nulla. È appena iniziato. Wovenhand era solo la prima parte, non l'ingresso, sarebbe sbagliato considerarlo tale. David era semplicemente una prima porzione di ciò che a breve si sarebbe scaraventato per un'ora e venti sul palco del Regent. Sono le undici quando le luci si spengono completamente e iniziano a sentirsi nel buio completo degli echi incessanti di una batteria che cresce man, mano fino a far deflagrare un basso distorto che fa calare l'atmosfera in un gelido inverno. A "Carrion Flowers" spetta il compito di annunciare Chelsea sul palco. E signori, che cazzo di inizio. L'impatto è terremotante e sinistro. Un'aurea spettrale che si materializza nelle cantilene eteree della Wolfe, completamente padrona delle sue angoscie e delle marziali ritmiche che fanno da propulsore per incatenare e imbrigliare il pubblico nella sua caduta verso l'abisso. "Abyss" infatti, uscito quest'estate, verrà proposto quasi integralmente lungo la setlist e l'impressione che si aveva su disco, non solo viene confermata, ma viene ulteriormente migliorata. Il segreto di Chelsea è che pur essendo lei cantautrice a tutti gli effetti, ha una sintonia con gli altri membri della sue band pressoché perfetta: da Ben Chisholm (polistrumentista al basso e al synth/tastiera) ad Aurielle Zeitler, in arte Ghost Marrow, che alla chitarra provoca ulteriore profondità alle già cupe e malinconiche trame della Wolfe, fino ad arrivare a un implacabile Dylan Fujioka (batteria) che è un perfetto metronomo nell'alzare vertiginosamente il wall of sound di Chelsea. Già, perché alla fine c'è lei, seppur lievemente acciaccata fisicamente (ha dovuto annullare per influenza la data ad Albuquerque qualche giorno prima), con la sua voce che sembra provenire da un luogo oscuro, così dolce, ma inquietante. Un ossimoro che divora costantemente i ritmi cadenzati che in un batter di ciglia si dimenano verso scenari dilatati e rarefatti piuttosto che in un turbine di distorsioni che rendono la proposta della Wolfe realmente heavy. La performance non conosce cedimenti: introversa, ma densa di un pathos trascendentale. Ogni singola parola sussurrata, ogni arrangiamento, sembra provenire direttamente dall'inconscio di Chelsea. La capacità di creare visioni onriche e maledette si fa ancor più suadente quando ripesca da "Apokalypsis" pezzi come "Mer", senza citare la conclusiva marcia ripetitavamente funerea ed ossessiva di "Pale on Pale" che si libera dalla produzione lo-fi e nei suoi sette minuti è sinistra e annichilente, con Chelsea che termina il concerto urlando sui pickup della sua chitarra elettrica, in ginocchio, con lo sguardo che istericamente fissa il palco. È magnetismo allo stato puro, fra istanti che hanno addirittura del decadentismo romantico, vedesi "Simple Death", ad altri in cui ci si lascia cullare in una tetra e nostalgica nenia come in "House of Metal". Più che a un live sembra di assistere al materializzarsi degli antri più remoti della mente della Wolfe.
È mezzanotte e mezza quando il viaggio finisce e Chelsea scompare dietro una densa coltre di ghiaccio secco. I boati scroscianti durati cinque minuti abbondanti sono più che meritati. Sono doverosi. Un'esperienza, quella di Wovenhand e Chelsea Wolfe, che ha trasportato Los Angeles in un'altra dimensione, con delle precise scelte artistiche portate avanti forse in modo integralista, ma che sono in grado di far dimenticare il dove ci si trova, così da poter lasciarsi trasportare lungo tumultuosi percorsi musicali. Io son ancora lì imbambolato sotto il palco, non c'è alcun dubbio su questo.
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