E’ un disco inutile? Assolutamente no: i protagonisti suonano splendidamente, come sempre. E’ un disco brutto? Meno che mai: come dicevo, è suonato da Dio, la track list è ottima, l’idea ancor migliore. E’ un disco soricamente inutile? Fate voi: è l’ultima incisione in assoluto, in studio, di uno dei grandi (dei più grandi) della storia del jazz. E allora perché cazzo e stracazzo questo disco non si trova? E lo dico per voi…: io a suo tempo, da fanatico religioso del chetbakerismo più ortodosso, gli ho dato la caccia che a una ragazza non avrei mai dato, trovandolo e beandomici per anni. Per carità: da qualche parte, probabilmente c’è, ma visto il prodotto e il livello dello stesso, diciamo che per ogni copia del piacionissimo (e pur bello, ovvio) “Chet For Lovers” della Verve, dovrebbero trovarsene dieci di questo. Vabbè…: fine della polemica e veniamo al disco che, come dicevo, vale, e non poco.
È stato evidentemente un giorno positivo, quel 29 febbraio del 1988, nel quale nello studio Malleus di Recanati si sono incontrati uno dei migliori pianisti italiani, Enrico Pieranunzi, e una leggenda vivente del jazz, voce e tromba da brividi, Chet Baker. Pochissimo tempo dopo Chet avrebbe deciso, o qualcuno avrebbe deciso per lui, che era il caso di volare giù da un balcone di un albergo, con la tromba in mano. E la sua splendida e disperatissima storia sarebbe finita lì. Semplice dato di cronaca? Inutile gossip? Ovviamente no. Chi ama il jazz sa benissimo che la vita del jazzista è parte integrante della sua musica, dell’emissione anche di una sola nota, del sussurrare anche una sola parola. Tutto è importante, nel jazz. E questo è ciò che rende impossibile, in campo jazzistico, la figura dell enfant-prodige. Per suonare bisogna vivere e soprattutto aver vissuto. E Chet, da buon barolo – mica una bonarda dell’Oltrepò qualsiasi… - era sempre meglio del se stesso precedente, sempre più grande, sempre più vissuto.
In questo disco, infatti, abbiamo lo stesso Chet dell’inarrivabile e di poco precedente “Let’ s Get Lost”, disco e film da urlo. Siamo, come dicevo, in studio e in duo. Le uniche tracce successive della Vita e della Musica del Nostro saranno delle meravigliose comparsate live, tutte rigorosamente documentate o quasi. E tutto, naturalmente, è oro. Qui lo stato di grazia dei due è a dir poco sommo. Pieranunzi si conferma grande improvvisatore dal fraseggio e dalla tecnica sublimi, ma anche rispettosissimo e puntualissimo accompagnatore, consapevole di essere, per un giorno, al servizio di un genio, oltretutto in forma.
Chet è Chet, vecchio (molto più di quel che diceva l’ anagrafe), con il suo perfetto filo di voce e il suono di tromba più bello della storia del jazz dopo quello di Miles del periodo d’oro. Il fraseggio vive degl’improvvisi acuti dell’antica tencica, ma soprattutto è fatto di note pensate, vissute, coricate sul tappeto armonico del piano con grande e finissima maestria. Il repertorio è naturalmente quello classico delle ballad che Baker amava tanto, e tanto amava riproporre. Dunque “But Beautiful” (con tre, bellissime, alternative takes), “My Old Flame”, “The Thrill Is Gone”, e via così, per un’ora giusta di assoluta perfezione. La Philology, che ha questo master (in tutti i sensi), pensi a valorizzarlo di più, che la gente, anche se a volte non sembra, è meno cretina di quanto appare. E premierebbe. Forse.
Carico i commenti... con calma