Stiamo parlando della jazz life per eccellenza.
Stiamo parlando di quel giovane ancora bello, fin troppo bello, a guardarlo bene, per immaginare che suonasse da dio. Oggi se uno è così bello (ed è la norma, anche meglio, maschi o femmine che siano… ) fa quasi certamente della musica di merda. Amen. Allora no. Per l’Italia, molto spesso, magari attratto dalla “dolce vita” che allora spesso albergava tra le strade delle nostre migliori città (anche quella, a pensarci bene, così lontana dagli odierni Billionaire… ) gironzolava questo giovane magro, dalla voce sottile e dolcissima, e dalla tromba perfetta. Fraseggio, suono, fantasia, prontezza, tocco, attacco. Tutto perfetto. Qui come altrove. Qui come sempre.
E allora perché parliamo di questo disco… ? Per una nota meramente storico/personale (è l’ultimo che ho comprato… ) e per un’altra di pura curiosità: come in altri casi, qui Chet suona con degli italiani. Ma in un’altra splendida occasione (sempre ottobre del ’59…) l’abbiamo visto in compagnia di veri e propri giganti del jazz nostrano, come Gianni Basso o Renato Sellani. Qui è semplicemente accompagnato da una marea di viole, violini, violoni e chi più ne ha più ne metta. Uno sproposito di retorica romanzesca e italianissima. Un’orchestra che era milioni d’anni luce lontana dalle orchestre d’oltreoceano. E allora, il disco è brutto… direte voi… No, per niente. Primo, perché qui stiamo parlando di uno dei pochi Re Mida della Musica, in grado di far diventare oro tutto ciò su cui poggia voce o tromba. Poi perché tutto va storicizzato, amichevolmente, affettuosamente, senza isterie. Anche l’Italia, la Milano del 1959, dunque. Dove il jazz era visto in un dato modo, e solo in quello, dove Claudio Villa imperava e Faber era alle prese con le prime canzoni. Dove la modernità si chiamava Carosone, Buscaglione e Modugno. E dove il jazz era un bel gioco per pochi coraggiosi e per splendide colonne sonore alla “Soliti Ignoti”. Insomma, un altro mondo, nel quale i confini della retorica e del romanticismo erano sideralmente diversi da quelli attuali.
Dunque abbiamo in questo disco un incontro tra due mondi, quello della professionalità sbracata dell’America, del jazzista puro, della assoluta modernità di suono e fraseggio e quello della tradizione, della partitura, del crescendo melodrammatico, del facile effetto e degli occhi spalancati sul mondo. Non è una pessima orchestra. È anzi intonatissima, impeccabile. Ma per i canoni di oggi (nostri) e di allora (altrui) sicuramente troppo scolastica, troppo serva della partitura (la partitura è un po’ come un’automobile, la si può guidare o esserne guidati…), troppo giustina e preparata per quell’occasione lì. Anche il repertorio è discutibile, benché ovvio, per quanto è di fatto antichizzante classici, allora, modernissimi. Disco da non prendere, potreste pensare… E invece no, naturalmente, dal momento che un quadro d’epoca e d’autore è sempre significativo sia per l’epoca che per l’autore. Noi abbiamo avuto questo tipo d’orchestre, e da un certo punto di vista si può anche andarne orgogliosi, e su Chet… che dire… il suo assoluto genio è una gioia che si rinnova e viene provata “oltre ogni ragionevole dubbio” in ogni incisione, sia in quelle ben fatte che nelle miriadi di bootlegs che si trovano in giro.
Lui, vero cane sciolto, suonava con tutti (si dice… ma guardacaso erano sempre tutti bravissimi…), firmava tutti i contratti e non ne firmava, sostanzialmente, nessuno. Spesso non aveva neanche più la tromba, data in pegno per qualche dose, come e peggio del contralto di Bird. Ma la realtà è e rimane una: quello che la sua voce e la sua tromba toccavano, come ho già detto, diventava oro.
Sempre.
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