Non sono mai stato un estimatore dell'AOR, ed in linea di massima gli album rock degli anni '80 che mi hanno dato sensazioni da instant crush si contano veramente sulle dita di una mano, per un motivo o per l'altro, almeno prima di imbattermi in "The Getaway" di Chis De Burgh. Questo anglo-irlandese con un'infanzia da giramondo al seguito del padre diplomatico è uno dei molti casi in cui faccio fatica a darmi una spiegazione convincente del riscontro commerciale tuttosommato modesto a fronte di potenzialità immense. Innanzitutto una delle più belle voci rock che abbia avuto modo di ascoltare, melodica, potente, duttile e carismatica, poi un'ottimo songwriting ed una musicalità intelligente, variegata ed aperta a molte influenze. "The Getaway" del 1982 è la summa di tutte queste qualità, un arena rock di gran classe che integra elementi sia synth che folk; un lavoro di grande estro, equilibrio e sapienza, che spacca letteralmente il culo tanto al rockettino bifolco e cotonato dei Bon Jovi quanto al pop artefatto, dolciastro e stomachevole dei Duran Duran. Le caratteristiche migliori dell'AOR sono tutte racchiuse in questi tre quarti d'ora di musica; probabilmente Al Stewart avrebbe voluto proporre questo tipo di musica dopo "24 Carrots", ma gli è mancato il guizzo, la visione d'insieme e la perfetta organizzazione che fanno grande questo album.
In "The Getaway" convivono armonicamente molti grandi contrasti: sintetizzatori e chitarre, acqua e fuoco, guerra e pace, inni da grandi palcoscenici e sonorità rilassate, mediterranee; con un approccio "sensible", buon gusto, cura e professionalità nulla è impossibile. L'impatto con "Don't Pay The Ferryman" è di quelli che non si dimenticano, un giro di tastiere molto cinematografico, basso pulsante, un travolgente refrain in crescendo, l'arrangiamento giusto ed una grande voce, ed ecco a voi l'archetipo di una canzone perfetta, che si abbina meravigliosamente con una ballad sontuosa e passionale come "Crying & Laughing", forte di un uso perfetto dei synths ed un altro memorabile refrain, il lento più riuscito dell'album senza nulla togliere ad altre ottime performances come l'amara "I'm Counting On You" e un'intensa "Borderline", che mette in evidenza la particolare attenzione di De Burgh per le tematiche inerenti alla guerra, non sorprendente dato il suo background culturale. La grande perla nascosta del lato più rock di "The Getaway" è però l'accoppiata "Revolution"/"Light A Fire", di fatto un unico discorso musicale composto da un affascinante intro acustico, che sembra uscito da un album dei Blackmore's Night con quindici anni di anticipo seguita da quella che è de facto una breve ma bellissima ed intensa versione "synthetizzata" di "16th Century Greensleeves", in cui anche il cantato riecheggia molto quello di Ronnie James Dio, ovvero quando il citazionismo diventa arte. Due episodi praticamente synth pop (con una voce che non trova paragoni neanche lontani nell'ambito) vivacizzano e colorano l'album, fungendo inoltre da collante tra le due grandi anime principali dell'opera, ovvero la brillante e critica titletrack "The Getaway", impregnata di fermenti rivoluzionari e voglia di spaccare il mondo, e la più leggera e spensierata "Ship To Shore", spudoratamente poppettara e danzereccia, ma che riesce comunque ad integrarsi alla perfezione nel contesto.
Un grande tratto distintivo e fortemente caratterizzante di "The Getaway" è senza dubbio la massiccia presenza di sonorità folk semiacustiche, un folk tranquillo, rilassato, di ascendenze fortemente mediterranee, il dolce e grazioso sirtaki di "All The Love I Have Inside", un affresco di vita pittoresco e solare come "Living On The Island", impreziosito da un bell'assolo di sax e "Where Peaceful Waters Flow", un piccolo capolavoro forte di una stupenda performance vocale, il dolce arpeggio acustico e la coralità aggraziata e non pacchiana di un refrain ben sostenuto da un azzeccato flauto traverso d'arrangiamento. Un magnifico trio di feel good songs, leggermente meno riuscita la conclusiva "Liberty", che si dilunga leggermente in qualche pomposità orchestrale di troppo, appesantendo una composizione che sarebbe stata assolutamente perfetta come breve outro, ma è un'errore assolutamente veniale, un eccesso di self-confidence di cui a malapena ci si accorge nel contesto di un album veramente perfetto, ispiratissimo e privo di punti deboli, per quanto mi riguarda una pietra miliare nel suo genere, altamente consigliato perchè è un disco praticamente per tutti ma realizzato con una classe veramente per pochi, un bellissimo lavoro di fine artigianato in un settore tutt'altro che facile.
Probabilmente Chris De Burgh è stato un commerciante indipendente trovatosi a combattere contro una grande catena di supermercati, citando Hubert Humphrey a proposito della sua sconfitta contro John Kennedy nelle primarie del 1960, ed anche per questo si è guadagnato il mio pieno e totale endorsement.
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