Non ho ancora ascoltato l’ancor recente album dei riformati Black Crowes e quindi non so chi l’ha avuta vinta fra i due fratelli Robinson, se il chitarrista Rollingstoniano Rick o il cantante Gratefuldediano Chris. Per anni si sono presi a cazzotti tentando di indirizzare i Corvi Neri in territori roccaccioni (il chitarrista) oppure… fumati (il frontman), trovando pace soltanto una volta separati e alla guida delle rispettive band. Poi, nel 2019, a Chris ed ai suoi Brotherhood è purtroppo venuta a mancare una figura essenziale ovvero il chitarrista, compositore, seconda voce, fotografo Neal Casal e se non altro questa triste cosa è servita a riappacificare e riavvicinare i fratelli.

Ma per intanto spendiamo due righe per quest’opera dei Brotherhood, col boss perciò ancora affiancato da Casal insieme ad altri due barbudos, alle prese colla loro musica d’altri tempi, rilassata e… spinellosa, quel certo modo di ruzzolar fuori rock arioso e “dilatato” che i maestri californiani del Morto Riconoscente hanno insegnato in giro per una vita. Un genere peraltro così “rurale” e yankee da avere avuto sempre una certa difficoltà ad affermarsi con forza dalle nostre parti, più attirate da cose tipo malesseri metropolitani, ben lontani dalle lisergiche jam di un quarto d’ora l’una. Era così negli anni settanta, figurarsi adesso.

Detto dei Grateful Dead come chiari ispiratori, detto tutto: un rock ondivago e moderatamente psichedelico quello della fratellanza di Rick Robinson, senza il minimo timore di indugiare in lunghi preamboli, interludi strumentali o sospensioni del ritmo, peraltro mai spedito. In quest’opera i pezzi a ben vedere non sono particolarmente dilatati… il più lungo non arriva agli otto minuti, però il disco non è fra i loro migliori, non c’è paragone con l’esordio “Big Moon Ritual” del 2012, quello un mezzo capolavoro, un’epifania.

Amo visceralmente la voce di questo cantante, il buon Chris da Atlanta, Georgia. Nei Crowes anni novanta urlava molto di più, per sovrastare il casino creato da suo fratello e dagli altri tre. Qui non ne ha bisogno e il suo timbro sonoramente sudista, così peculiare e intenso, con una pasta unica, riconoscibile e corroborante, viene fuori ancor meglio e mi basta e avanza come garanzia. Poi ci sono anche il povero Casal e il tastierista a fare le cose per bene, con gusto e misura e pulizia, e allora quattro stelle.

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