Tutti odiano Valor Kand...

...e non nego di far parte anch'io della categoria: non solo per la riprovevole appropriazione del marchio Christian Death, non solo perché è riuscito a sfornare una quantità spropositata di album che possiamo annoverare fra i più obbrobriosi che il genere umano abbia avuto l'ardire di generare ed ascoltare, ma anche perché nel complesso Valor è uno degli esseri più disgustosi (concettualmente e fisicamente) che l'intero panorama rock abbia mai partorito. Con la sua faccia rettangolare, il pizzetto da tamarro, la cannottiera retata che nemmeno Scialpi negli anni Ottanta, con la sua spocchia infinita, la sua idiozia, il suo carisma da quattro soldi, con le stronzate che dice sul palco, che scene orripilanti quelle che si prestarono agli occhi quando ebbi l'insana idea di vedere dal vivo i nuovi Christian Death (anche perché un'esibizione di quelli vecchi mi si nega per insommortabili motivi anagrafici), aspettandomi illuso una riproposizione di “Romeo's Distress”.

Eppure, come tutti coloro che attirano a sé l'odio incondizionato da parte dell'umanità intera, Valor possiede le sue qualità, come a voler risultare ancora più odioso nel far saltare i nervi anche al detrattore più indefesso: Valor è stato un buon musicista, questo è innegabile, e finché le sue gesta son servite da palcoscenico per permettere a Rozz Williams di inscenare le sue nevrosi, le sue manie, le sue turbe mentali, non si può certo criticarlo. Anzi, si può affermare che la sua creatività ha saputo imprimere nuova energia ed ampliare gli orizzonti di una band fenomenale fin dal suo esordio (l'irripetibile “Only Theatre of Pain”, capolavoro insuperato per la band e per il genere intero, il death-rock), ma ancora incatenata ai rigidi dettami del post-punk vigente agli inizi degli anni ottanta, che pochi margini lasciava in termini di sviluppi stilistici. Il suo talento melodico, le sue inquiete visioni esoteriche, la sua grandeur gotico/romantica hanno impreziosito, inspessito, arricchito la musica dei Christian Death, senza lederne i presupposti; ma soprattutto hanno fatto sì che si potesse meglio esprimere ed al contempo arginare il potenziale espressivo di un artista come Williams, figlio di una fragilità e di una impulsività che dovevano in qualche modo essere ricomposte e guidate, onde evitare il dramma artistico (oltre che quello psichico) definitivo.

L'antipatico Valor ha così avuto, a modo suo, un senso nell'evoluzione del death-rock, e i due album che sanciscono la sua piena collaborazione con Rozz Williams, prima che quest'ultimo lasciasse la partita, sono da annoverare fra le pietre miliari del genere. Parlo dell'ottimo “Catastrophe Ballet” (1984) e di questo “Ashes” (1985), di poco inferiore, già figlio dell'ego spropositato del nuovo sopraggiunto. Ma rendiamo onore al merito: in questi due lavori troviamo un altro pilastro fondamentale del nuovo corso della band, ossia l'affascinante Gitane De Mone, che con le sue tastiere e i suoi sensuali controcanti andrà a smussare le crudezze e le efferatezze che erano state mostrate in orgine dalla band.

Già nel precedente lavoro la band aveva saputo smontare l'impostazione prettamente post-punk dell'esordio, per approdare ad una dimensione più melodica, variegata, ma non meno conturbante. Con “Ashes” il cammino prosegue nella medesima direzione, rodendo ulteriormente l'autonomia del Williams autore, comprimendo i momenti più tirati (relegati nella sola “Face”), lasciando libero sfogo alle atmosfere, alle visioni soprannaturali della premiata ditta Valor/Gitane: la chitarra del primo (pure al piano, all'organo, al violino, alla voce ed alle percussioni a mano) sferza i brani di recrudescente acidità, senza mai perdere di vista la melodia (i riff del resto son sempre pregevoli ed ispirati), mentre i sintetizzatori e le tastiere della seconda donano atmosfera ed eleganza ai brani, sempre ben concepiti ed arrangiati. In tutto questo si destreggia alla grande Williams, che già dall'album precedente aveva adottato uno stile canoro maggiormente pulito, teatrale, romanticheggiante, meno graffiante e sgraziato (più bowieano potremmo dire), scelta che tuttavia gli farà perdere un poco di quel carattere morboso e sfibrante che lo avevano reso unico ed inimitabile.

L'imponente title-track, posta in apertura e che possiamo vedere come uno dei punti pià alti dell'intera discografia dei Christian Death, ben spiega quanto appena descritto: introduzione drammatica di pianoforte, basso pulsante in soffondo, lo sfrigolare obliquo della chitarra elettrica, un corpus sonoro che piano piano prende forma per poi consolidarsi in una tosta new-wave da primi della classe. Seguono una batteria trottante, gli arrembanti controcanti femminili, le sfibranti visioni di Williams novello Ziggie Stardust, un frastornante ritornello ai limiti del glam, ed una conclusione in crescendo che rasenta il mistico, grazie ad una accelerazione ritmica degna della migliore cavalcata metallica. Quello che in pratica ci riproporrà Valor nei secoli dei secoli, ma che si tramuterà in farsa, poiché privato dell'indispensabile contributo di quello che rimarrà nei secoli dei secoli uno dei migliori interpreti dell'universo dark; uno che (purtroppo i fatti ci daranno ragione) non ci faceva, ma c'era. Eccome se c'era.

Aperta dal fragore di un gong, la seconda parte della title-track è un inquietante interludio strumentale che fa il paio con la traccia conclusiva dell'album “Of the Wound”, altro episodio rumoristico, questa volta condito dal pianto di Sèvan Kand (prole dello stesso Valor, che non perde occasione per mostrare il suo invidiabile buon gusto), dalle grida disumane di Gitane e dal farneticante recitato di Williams, che torna ad inorridire con la sue movenze morbose, al limite del collasso psichico.

Il resto dell'album è una manciata di pezzi fra cui primeggiano gli otto minuti del classico “When I was Bed”, dai toni vagamente mediorientali (ancora farina del sacco di Valor) e la surreale marcetta da paese (!!!) “Lament (over the Shadows)”, che vede duettare Gitane con un Williams in una veste sorniona da stralunato chansonnier, a dimostrazione di come l'entità Christian Death, sotto l'egida dell'istrionico Valor Kand, abbia acquisito un carattere multiforme, ma sempre ben radicato in un contesto di provocatoria irriverenza nei confronti del perbenismo, del bigottismo e della gerarchia ecclesiastica sui generis, impianto concettuale alla base del progetto fin dalle sue origini (il monicker del resto è eloquente), e che negli anni rimarrà l'unico tratto di coerenza del percorso artistico della band.

Si potrà dire che i Christian Death si sono imborghesiti, che si sono dati al pop orecchiabile, ma è un dato di fatto che anche da questi Christian Death passi la storia della musica dark e del gothic-rock in generale.

Ode a Valor Kand (ma solo per questa volta).

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