Un album ingiustamente liquidato. Credo che sul web tocchi proprio a me fare l’avvocato del diavolo ma voglio che chi cerca informazioni su "Still Climbing" (1994) senta anche una voce opposta ma senza partito preso.

Per questo inizio da ciò che secondo me non ha convinto chi ha ascoltato il disco. Innanzitutto il coraggio di fare questa musica che non cede un millimetro alle mode dell’epoca: credo sia il motivo di ascolti frettolosi e giudizi tipo “sì, bravi, ciao”. Gli undici brani proposti da Tom Keifer e soci sono spesso e volentieri lunghi e immagino che siano stati intesi come ripetitivi. Da ciò deriva l’ultimo punto debole potenziale di questo lavoro: nonostante il riavvicinamento ad alcune sonorità di "Long Cold Winter" e la continuità sulla strada di "Heartbreak Station", questo disco non è immediato, né di ascolto tranquillo. Anzi, richiede un metabolismo dai tempi molto elevati perché le componenti che lo animano sono complesse, articolate, diverse ed elaborate così bene da essere un tutt’uno perfetto dove è difficile distinguere i singoli elementi.

Detto questo – io stesso per un po’ sono stato vittima dell’ultima osservazione che ho fatto – passo alla mia personale visione del quarto full-lenght dei Cinderella. Prendetela come volete. Dai tempi dei "Saints In Hell" sono cambiate molte cose nell’animo di Tom Keifer. L’esperienza Cinderella, nel pieno degli anni 80, ha segnato sia lui che il rock. La sua gipsy band, zingara per vocazione e migrante per natura, non si è mai troppo soffermata su territori prettamente glam, restandone meravigliosamente ai margini e diventando, proprio per questo, un culto per tutti gli amanti del rock 80: capacità unica di emarginarsi per farsi desiderare. Come il fascino misterioso e oscuro dei viandanti, così i Cinderella hanno costruito la loro immagine di rockers da carovana ricoprendosi di pelli di animali selvaggi, dal ghepardo alla zebra, e di veli come le chiromanti. Effettivamente la loro musica non è mai stata un esempio di digeribilità ma dall’esordio di "Night Songs", alla precedente “stazione dei cuori spezzati” il successo era sempre stato garantito. All’inizio da brani comunque tosti e impostati, poi da ballads zuccherosissime. Il miglior pregio e il peggior limite (ma non per me) dei Cinderella resta comunque Tom Keifer. Una personalità immane vittima, probabilmente, del suo prosaico e contemporaneamente poetico genio artistico. Un paragone volatile me lo fa rapportare a Marcel Proust. Una pagina e mezzo senza un punto. Così Tom Keifer scrive, scrive, scrive e compone testi e melodie che dalla sintesi verbale di un Push, Push! arrivano al The Road’s Still Long di Still Climbing. Ecco, l’ingranaggio che fa muovere questo album diventa pieno zeppo di rotelle e di umori che rendono fluida quest’armata di note uscite in ritardo (ahimè!) per lo scoppio della Guerra del Golfo.

Blues e hard rock d’autore sono il genere proposto con temerarietà dal quartetto di Filadelfia che per questa maniacale lavorazione si avvale della collaborazione di ben altri undici membri tra musicisti e coristi. Capita l’antifona? Se andate a vedere chi ha scritto tutti i testi, allora potrete capire anche che questo disco è il romanzo che Tom Keifer s’è tenuto dentro per dieci anni. (Altro bastonabile paragone letterario è) Come Miguel Cervantes ha combinato una vastità infinita di generi letterari, qui il mitico Tom ha impastato poesia, pagine di diario e prosa libera proteggendole con gli scudi delle più raffinate forge: blues, country, hard rock. Mi viene lo schifo per il mercato musicale generato dal grunge: se non sei così, sei un cadavere. In quest’ottica ecco spiegato il menefreghismo nei confronti di quest’opera. E invece, il passo indietro di cui parlano tutti, per me è un passo avanti. Tom Keifer ha deciso di abbandonare anche le ultime moine glamour per scavare dentro se stesso e comporre il disco dell’anima. Nessuna strizzata d’occhio, nessuna palpata di sedere, niente di niente per farsi piacere. Solo una musica (a tratti quasi a livelli di musical) che corrobora il suo spirito, una forma espressiva decisa, un modo per estrovertere se stesso, come un dipinto o come una poesia. Il tutto è pieno di dettagli. Aliti, gemiti, ansimi, movimenti del diaframma vengono resi da fiati come il trombone che più volte, quasi impercettibile, si carica addosso tutto un brano con un tono basso e orco. Chi sente queste cose nell’album può capire perché si tratta di un grande album. Chi si perde questi dettagli non sa cosa ascolta. Questo cingolato solca le zolle del terreno hard blues con sfrontatezza. Le tecniche utilizzate sono svariate. I suoni prodotti anche. Chitarre acustiche che sfiorano il banjo sembrano quasi produrre quel suono ritmico dei gingilli orientali mossi dal vento appesi sopra le porte. Mi viene in mente un carillon. Il blues è sofferenza, in alcuni casi rassegnazione. La morte della mamma di Tom gli fa comporre la più grande ballad che i nostri abbiano mai proposto: "Hard To Find The Words". E poi una straziante malinconia, lunga e distruttiva, che invade anche i brani teoricamente più vivi, dall’overture di "Bad Attitude Shuffle", retrò come la musica che si ascoltava negli anni 30, alla meravigliosa "Talk Is Cheap", che urla mentre lacrima. Gli altri brani li lascio a voi. Io me lo tengo stretto questo "Still Climbing".

Opera postuma di un vivente.

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