Ventinove anni dopo Paradise Lost esce Forever Black. Ventinove anni!
In un lasso di tempo così lungo sono successe talmente tante cose che ci vorrebbe un’enciclopedia per fare un sunto del tutto, ma tra le pieghe degli eventi si sono riformati i Cirith Ungol. Una reunion in sordina, iniziata grazie all’ammiratore Jarvis Leatherby, subito promosso a bassista, tra festival locali e apparizioni poco pubblicizzate, vecchi pionieri tornati sul palco a fare ciò che meglio sanno.
L’anno scorso esce un singolo, ma di sicuro non mi aspettavo un album, anzi speravo non arrivasse mai, visti i risultati spesso patetici dei grandi nomi che si fanno prendere dalla nostalgia.
E invece il risultato è sorprendente. La classe è sempre la stessa, l’atmosfera creata dei Cirith Ungol è sempre quella. Forse perché l’epic metal, quello vero, è un po’ come lo stoner: una musica senza tempo, sempre simile a se stessa. Chi vi si cimenta deve trovare il giusto suono, creare le giuste vibrazioni, non è imperativo innovare o progredire tecnicamente, bisogna solamente raggiungere l’ispirazione. Quindi che oggi sia l’anno 1986 o l’anno 2020 non importa, l’archetipo della musica epica resta immutato.
Il parziale cambio di formazione provoca comunque qualche variazione sul tema. Si sente la mancanza dello storico chitarrista Jerry Fogle, creatore di quei suoni acidi degni di un viaggio allucinato nelle viscere della terra, che raggiunsero l’apice in King of the Dead. Fogle aveva comunque già abbandonato la nave prima del commiato di Paradise Lost, che infatti risulta molto più barocco, più luminoso, per forza di cose meno doom ed oscuro. Va ricordato che Fogle purtroppo è morto nel 1998 per problemi di salute. Il suo sostituto Jim Barraza è nuovamente della partita, ma è tornato all’ovile pure Greg Lindstrom, secondo chitarrista sul debutto Frost and Fire, di ormai trentanove anni fa!
Forever Black si presenta quindi con tutto questo bagaglio di esperienze: le canzoni si susseguono senza riempitivi tra heavy metal di annata, richiami settantiani, passaggi doom oscuri, con l’inossidabile voce di Tim Baker a tenere il pH sembre bassissimo, e qua e là la vena marziale e più solare di Paradise Lost. Il risultato è perfetto e all’altezza del nome della band, l’album ha una personalità propria e si distingue per carattere dagli altri. Elric di Melnibone e la sua spada Stormbringer capeggiano sempre in copertina.
Ventinove anni dopo.
Commovente.
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