Se vi siete mai chiesti cosa potrebbe venir fuori dalla unione delle atmosfere cupe tanto care ad Andrew Eldritch e le sue sorelle della misericordia, l’elettropop di Dave Gahan e soci, ed un pizzico di musica tecno, avrete adesso la risposta: Clan of Xymox.
Il combo olandese è attivo sulle scene da oltre un ventennio e rappresenta sicuramente il capostipite del filone elettronico della darkwave. Negli anni ottanta la creatura di Ronny Moorings ebbe un discreto successo grazie soprattutto all’interessamento di Ivo Watts e della sua famosa etichetta musicale 4AD (la stessa dei Dead Can Dance, Cocteau Twins e Pixies, tanto per citare qualcuno).
Il quid che, tuttavia, non permise loro di fare quel balzo in avanti tale da portarli ad essere una band di culto del settore fu, forse, l’eccessivo accostamento alle sonorità, all’immagine ed alle tematiche dei Sisters of Mercy, che valse loro critiche da ogni parte.
Tuttavia, anche se indubbiamente Ronny Moorings si rifà ai tenebrosi timbri vocali di Eldritch e il suo gruppo è stato sicuramente influenzato dal gothic rock dei Sisters, i Clan of Xymox sono portatori di una concezione molto personale di fare darkwave mischiato con l’elettronica, e davvero molto lontano dalle atmosfere dancefloor e pacchiane di altre bands come gli Alien Sex Fiend, gli Asp e tante altre.
La loro musica, infatti, è un concentrato di melodia e disperazione allo stesso tempo, resa ancora più straziante dai testi assolutamente decadenti ed introspettivi. La loro ultima fatica “Breaking Point”, non delude di certo le attese e ci presenta un suono assolutamente fresco e moderno, ma, nonostante ciò, concretamente ancorato alle sonorità delle origini.
L’opener “Weak in My Knees”, è di quelle fulminee ed è sicuramente la più tecno, da 100 “beats” al minuto. La voce di Moorings, cavernosa e toccante, si staglia attraverso meandri sonori caratterizzati da sintetizzatori, schitarrate e drum machine.
Le altre tracks più veloci, ma decisamente meno tecno, sono nell’ordine “Be my Friend”, resa particolarmente suggestiva dagli effetti campionati di quelli che sembrano canti gregoriani, “Under the Wire”, dal finale palpitante e, soprattutto, la conclusiva “What is Going On”, in cui la banda dimostra di aver imparato in pieno la lezione dei Depeche Mode e di averla traslata su basi goticheggianti. Ma, a mio parere, l’album raggiunge le sue vette nei momenti più lenti e malinconici e, cioè, nella tristissima melodia di “Eternally” e della successiva “We Never Learn” , e, soprattutto, nella strumentale “Pandora’s Box”, agghiacciante e trascinante.
In conclusione, un disco da ascoltare quando si è giù di morale per due motivi. O per riprendervi e destarvi a nuova vita, grazie alla massiccia dose di energia prodotta dalle songs più ritmate o per lasciarvi abbandonare definitivamente dal fascino della tristezza creata dalle atmosfere più lugubri.
A voi la scelta.
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