Un disco semplicemente sbalorditivo, principalmente perchè le parti principali dell'opera sono suonate dalla violinista Clara Rockmore, specializzata dopo anni di studio nell'arte del theremin.

Si tratta, per chi non lo sapesse, di uno strumento basato sull'emissione di onde nell'etere: senza toccare alcunchè, ma muovendo le mani in modo opportuno, si riesce ad ottenere una certa gamma di suoni. Uno dei modelli migliori è opera di Moog (che produsse anche TAOT: rip). E attenzione che non si tratta di semplice "rumore adattato", in quanto la nostra riesce ad eseguire tranquillamente pezzi di Tchaikovsky e Stravinsky senza che si noti la differenza con le versioni classiche. Il suono del Theremin è assimilabile ad un intenso violino, che a tratti riesce a modulare addirittura una voce umana. Vorrei soffermarmi inizialmente sulla tecnica superba dell'artista in questione, capace di orchestrare le note alla perfezione e di inventare, di fatto, un modo per suonare lo strumento.

Qualcuno ha detto che non sono gli strumenti a fare la musica, ma chi li suona: mai affermazione fu più adatta a questo singolarissimo caso. Infatti, a parte i Led Zeppelin e pochi altri, sono veramente in pochi ad aver utilizzato questo splendido strumento, ora caduto nel dimenticatoio e certamente da riscoprire. I brani godono di una compattezza degna di un capolavoro di musica classica, ed è complesso indicarne i migliori: come al solito mi piace segnalarne un paio. Anzitutto "Swan" di Saint-Saëns, uno dei più noti ai non appassionati di classica: semplicemente stupendo, e molto adatto ad iniziare l'ascolto. Notevoli anche "Hebrew Melody" e "Serenade melanconique" - indubbiamente per l'oscurità, il senso di smarrimento, unita alla dolcezza malinconica di ogni nota. Sono queste le sensazioni principali che "The art of theremin" riesce a suscitare. Il fascino maggiore del disco risiede proprio nell'inedito, nel fatto che è molto poco comune l'utilizzo di un theremin in un'opera musicale (era molto diffuso nelle colonne sonore della sci-fi anni '50). Un lavoro che sorprende, stimola all'ascolto, ma non manca di qualche difetto, a voler essere pignoli. Anzitutto la qualità non eccelsa delle registrazione (del 1977) ed una monotonìa "da primo ascolto" che accompagna il lavoro. Ciò dipende in parte dall'uso dello strumento, dalla sua tonalità particolare, che non è certo la cosa più comune sentita in giro, e dalla scelta dei brani, dotati di un andamento molto moderato che potrebbe stancare con facilità. In certi momenti, si crea un effetto di dissonanza veramente difficile da digerire. Fortunatamente questa sensazione di straniamento viene in parte attutita proprio dagli accordi del pianoforte, e dalla capacità di orchestrare, modificare, modulare con precisione ogni singolo suono.

Ovviamente parte "avvantaggiato" l'ascoltatore abituale di classica, disposto che sia ad accettare la presenza del primo strumento interamente elettronico della storia della musica, e a cogliere la singolarità del suono con esso ottenibile. Certamente le doti artistiche della Rockmore sono notevoli, ma senza dimenticare l'eccellente lavoro di Nadia Reisenberg al piano. Buon ascolto a tutti...

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