Andare alle mostre dei pittori impressionisti ultimamente fa molto "trendy", ma ciò che conta è che permette un comodo godimento di quella Cultura che ci viene presentata da chi comanda come un babau, una cosa temibile, complicata e comunque riservata ad un'élite di specialisti. Invece c'è anche gente comune che vuole farsi un pieno di bellezza e stare per qualche ora al riparo dai tentacoli del Grande Cafone che regna su di noi. Peccato che ben poche di queste stesse persone volenterose e ammirevoli le ritroveremo ad un concerto dove si suonano musiche di Debussy o di Ravel. Eppure se i loro occhi sono capaci di andare in estasi di fronte ad un quadro di Monet, non si capisce perché gli orecchi non debbano fare altrettanto con le note limpide e rarefatte di Claude Debussy, che sembrano sparse secondo un capriccio, ma invece sono sempre al punto giusto, proprio come le pennellate di un quadro impressionista, apparentemente caotiche, ma in grado di rappresentare un mondo meglio di una perfetta miniatura. Fatto sta che ad un concerto del genere sarà quasi automatico ritrovarsi circondati da persone che parlano altre lingue, quelle di paesi civili. Non resta che far buon viso a cattivo gioco e al tempo stesso provare a fare un po' di pubblicità alla Cultura, parlando di un'opera come i Preludi per pianoforte di Debussy, il cui ascolto in qualche modo è paragonabile ad una galleria di quadri, anche se lo stesso autore metteva in guardia da un'interpretazione troppo pittorica, specificando che i "titoli" messi da lui stesso alla fine (non a caso proprio alla fine) di ogni preludio volevano essere solo un suggerimento.

Meglio dire che si tratta di una serie di visioni, intendendo con questo termine qualcosa di non troppo ben definito, che dipende parecchio anche dallo stato d'animo di chi ascolta. Per esempio "Danseuses de Delphes" è così sereno e armonioso da evocare l'antichità, ma le danzatrici di Delfi sono un optional: chi vuole vedercele faccia pure, ma nulla vieta di pensare alle colonne di un tempio greco o ad un obelisco egizio. Tuttavia sarà sempre una visione luminosa, di nitida perfezione. Così in "Voiles" non è detto che il moto ondeggiante delle note voglia dipingere proprio delle "Vele", ma le stesse onde del mare potrebbero essere le protagoniste di quest'altra visione trasparente e leggera. Più difficile immaginare qualcosa di diverso dal vento nei due preludi che lo rappresentano: sia "Le vent dans la plaine" che "Ce qu'a vu le vent de l'Ouest" sono vere e proprie folate di note, ottenute tramite un uso magistrale delle risonanze. Nel primo ("Il vento sulla pianura") la forza non è violenta ma costante e inesorabile; dalla pianura, che ne è annichilita, prova a levarsi una tenue melodia, subito spazzata via, il secondo ("Ciò che ha visto il vento dell'Ovest") è un autentico vortice di note, che si stenta a credere si possa ottenere solo con un pianoforte. "Les sons et les parfums tournent dans l'air du soir" ("I suoni e i profumi si aggirano nell'aria della sera") oltre che un verso di Baudelaire è un suggerimento che più vago non si potrebbe: quanti tipi di suoni e di profumi si possono sentire (o immaginare) all'imbrunire? Qui l'interpretazione si fa personale: io in queste note delicate e soffuse, serenamente malinconiche ci leggo una parola su tutte, che è "nostalgia". "Des pas sur la neige" ("Passi sulla neve") è al limite dell'onomatopeico: all'inizio pare proprio di sentirli, quei passi ovattati. Non sempre le note sono così rarefatte; alcuni preludi si presentano come vere e proprie danze. "Minstrels" ("Menestrelli") è un ballo fatto di scossoni, un po' stravolto e ubriaco, mentre "La danse de Puck" è quella leggera e indefinita del folletto del "Sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare. La danza può essere brutalmente troncata, come in "La serenade interrompue", dove il pianoforte simula perfettamente una chitarra spagnola, oppure soltanto accennata, come in "Les collines d'Anacapri" dove un abbozzo di tarantella emerge ogni tanto dalla trama di luminose note che dipinge il paesaggio mediterraneo. Il preludio più dolce è senza dubbio "La fille aux cheveux de lin" ("La ragazza dai capelli di lino"). Qui il pianoforte viene letteralmente accarezzato, come se ogni tasto fosse un capello della ragazza. Quello più suggestivo e, almeno per quanto mi riguarda, il più bello dei dodici, è "La Cathédrale engloutie" ("La cattedrale sommersa") basato su un'antica leggenda. Il momento più esaltante è nella parte centrale: le note diventano rintocchi da brivido che sembrano arrivare davvero da profondità remote, ma è bellissima anche la fase preparatoria, che con note progressivamente più forti e cupe sembra accompagnarci giù nell'abisso, fino a scorgere alla fine la maestosa cattedrale e a sentirne le potenti campane.

I preludi fin qui visti appartengono al Libro Primo, che risale al 1910. Esiste anche un Libro Secondo, quasi altrettanto bello, che meriterebbe una recensione a parte. Dei preludi esiste un'infinità di splendide esecuzioni, e anche alcune interpretazioni particolari, come quella del cinese Fou Ts'Ong, basata sull'affinità della scala usata da Debussy con quelle tipiche della musica orientale. Ma se dovessi indicare un'interpretazione da non perdere direi Arturo Benedetti Michelangeli, e non per sciocco patriottismo, ma perché era uno che dalle mie parti viene detto "pìssero", cioè così attento al particolare da rasentare la nevrosi. Uno capace di interrompere un concerto e di andare via incazzato nero se c'era troppo brusio o anche solo se non si sentiva in serata. Ma proprio per questo in grado di dare la massima importanza ad ogni sigola nota, il che è fondamentale quando si ha a che fare con composizioni in cui ogni nota spicca così nitida e staccata da presentarsi come una prova da superare, così come le pennellate di un pittore impressionista: poche ma sufficienti a definire un'immagine, e proprio per questo guai a sbagliarne una! Con Arturo Benedetti Michelangeli questo rischio era praticamente nullo, e il risultato semplicemente divino. Buon ascolto.

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