Se non la smetti di fare i capricci chiamo l’uomo nero.
Se non finisci di fare i compiti chiamo l’uomo nero.
Se non mangi le verdure chiamo l’uomo nero.
Ovvio che, quando arrivava l’ora di andare a dormire, prima perlustravo ogni palmo della cameretta, guardavo nell’armadio e sotto il letto se non ci fosse l’uomo nero, pronto a balzare fuori quando fosse stato sicuro che m’ero addormentato.
Nemmeno osavo immaginare cosa m’avrebbe fatto per punirmi per i capricci, per non aver fatto i compiti a casa e per aver lasciato i broccoli nel piatto.
L’uomo nero non l’ho mai scovato, però lasciavo sempre una lucina di compagnia; così, se mi avesse colto di sorpresa, mi sarei svegliato, l’avrei visto e mi avrebbe fatto meno paura.
Ciò che rimaneva invisibile mi faceva sempre più paura di ciò che potevo vedere coi miei occhi.
Tipo al cinema, lo squalo mi terrorizzò fin quando la telecamera non l’inquadrava e se ne percepiva solo la presenza per via di quella musichetta; poi quando manifestava il suo brutto muso, spalancando le fauci e sbrindellando i bagnanti mentre questi si chiedevano da dove provenisse quel sinistro motivetto invece di uscire dall’acqua a gambe levate, mica mi faceva più paura, anzi, quasi parteggiavo per lui, lo squalo; e tanto per rimanere nei paraggi di Spielberg, «Duel» mi impaurì più dello squalo proprio perché l’autista del camion non era mai svelato dalla macchina da presa.
Ancora oggi mi va così, figurarsi quando ero più giovane ed impressionabile.
Come quando vidi per la prima volta «Shoah» di Claude Lanzmann.
1995, un circolo culturale romano - uno di quelli dove non entravi se non non rispettavi nei minimi dettagli il canone del compagno Folagra - e per amore ero uso a frequentare simili luoghi ameni e pure altro.
Non lo sapevo mica si trattasse di un documentario di circa dieci ore, in lingua originale e sottotitolato, da sorbire in quattro serate con annesso dibattito.
Circa dieci anni prima avevo ignorato la prima nazionale su Rai 3, causa giovane età; fossi stato meno gretto, l’avrei ignorato lo stesso, causa orario di programmazione insensato.
Meglio fosse andata così, altrimenti non mi sarei mai ritrovato in in quel circolo.
Un documentario, quindi.
Quale fosse il tema documentato era lampante.
Era una storia di sommersi e di salvati, per dirla con Primo Levi.
Oppure, di topi e di gatti, per chi prediligeva le strisce di Art Spiegelman conosciute via Linus.
Nella forma, era un documentario ma, nella sostanza, era tutt’altro.
Era un’analisi asettica e fredda e gli oggetti di quell’analisi erano loro, i sommersi ed i salvati, i topi ed i gatti.
Era il risultato di undici anni trascorsi a raccogliere e montare testimonianze.
Claude Lanzmann era il medico che sezionava il cadavere in una sessione di medicina legale: nessuna emozione, solo l’intento di conoscere e divulgare la conoscenza.
Impressa sulla pellicola c’era la testimonianza di Franz Suchomel, sergente delle SS di stanza a Treblinka: si serviva di una lunga bacchetta, come un bravo maestro dei tempi andati, per dettagliare per filo e per segno il funzionamento di una camera a gas.
Come alla scuola guida, quando l’istruttore, colla sua bacchetta, mi aveva dettagliato le singole parti ed il funzionamento del motore: l’identica, metodica, fredda precisione dei dettagli.
Nessun reperto fotografico, nessun filmato d’epoca, solo oralità: la Shoah non era mostrata, ma narrata.
E lungo quella narrazione, sgorgavano poche lacrime, rari singhiozzi.
Come il medico che sezionava il cadavere, nessuna emozione in lui e nei discenti che lo attorniavano.
Il cadavere disteso sul tavolo, poi, l’ultima emozione l’aveva giocata chissà quando.
Il peggio fu quando uscìì dal circolo al termine della quarta serata.
Perché il sergente Suchomel intento a dettagliare il funzionamento di una camera a gas nel campo di concentramento di Treblinka non lo concepivo e sentivo che non l’avrei concepito mai.
E nemmeno concepivo come fosse stato possibile che qualcuno avesse speso undici anni della propria vita per imprimere dieci ore di pellicola, e dedicare dieci minuti di quella pellicola al sergente Suchomel.
Tanto meno concepivo lo sterile dibattito venato di frustra ideologia, che tradiva la freddezza nitida dell’opera di Lanzmann.
Ecco, la sola cosa che intuivo era l’approccio da mettere in soffita di fornte ad opere come «Shoah».
Anni dopo, lessi quanto scrisse Simone de Beauvoir a proposito ed iniziai ad avere meno paura dell’uomo nero.
E anche a comprendere perché qualcuno avesse dedicato undici anni della propria vita ad un simile progetto.
«Il mio film è un capolavoro cinematografico, un’opera d’arte riconosciuta come tale» (Claude Lanzmann).
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