All'inizio del 1977 Claudio Baglioni pubblica il suo sesto album, "Solo". Per la prima volta nella sua carriera testi, musiche e arrangiamenti (i quali nei due precedenti lavori portavano invece, rispettivamente, le notevoli griffes di Vangelis - E tu, 1974 e Bacalov - Sabato pomeriggio, 1975) sono scritti interamente da lui, ad eccezione del brano "Gesù caro fratello", inciso già nel 1971 da Mia Martini, il cui testo porta la firma di Franco Fabiano Tosi, mentre le musiche sono dello stesso Baglioni e di Antonio Coggio. E proprio Antonio Coggio è il "grande assente" di questo lavoro, visto che in tutti i precedenti album baglioneschi era stato il co-autore di quasi tutte le musiche. D'altronde, la solitudine artistica si intuisce gia' dal titolo del disco, che fra l'altro è una specie di concept proprio sulla solitudine in generale. Anche la copertina, raffigurante l'autore su sfondo nero illuminato da una luce rossa, sembrerebbe alludere a questo aspetto. Le musiche di questo lavoro sono molto variegate: classiche ballate "alla Baglioni" ("Solo", bella ballata pianistica accompagnata da orchestra; "Puoi?", con interventi di Fender e synth "sinfonici", "Il pivot", tra pianoforte ed elettronica, "200 lire di castagne", un pò stile stornello ma con bell'intreccio di pianoforte e piano elettrico), arrangiamenti elettronici ("Gagarin", con bell'effetto anche melodico), funk ("Romano male malissimo", anche un pò blues, "Quante volte"), ritmi tropicali e sudamericani ("Nel sale, nel sole, nel sud"), folk ("Strip-tease"), addirittura anche un pizzico di prog, anche se declinato in chiave "melodico-stornelleggiante-romanesco" ("Gesù caro fratello").

Anche i testi sono abbastanza variegati, anche se unite, come detto, dal "filo sottile" della solitudine; certo non mancano anche qui i brani iper-romantici, vero e proprio marchio di fabbrica di Baglioni: la title-track innanzitutto, ma anche "Puoi?". Confesso di preferire queste semplici, ma oneste e belle canzoni d'amore ai brani più "sperimentali" composti in seguito da Claudio, stanco forse di essere definito "il poeta delle ragazzine". Anche questi due pezzi citati, a ben vedere, sono molto malinconici e"solitudinistici". Ma oltre all'amore, nei testi sono affrontati molti altri argomenti, proseguendo così sulla scia di quanto già avvenuto nel precedente "Sabato pomeriggio". "Gagarin" è dedicata al celebre aviatore sovietico ("figlio dell'umanità"), primo uomo a volare nel cosmo nell'aprile 1961 a soli 27 anni, a bordo della Vostok 1. Nel pezzo si racconta naturalmente di quel volo, ad iniziare dall'incipit (Quell'aprile si incendiò), ma ci sono riferimenti anche alla sua morte precoce, avvenuta a soli 34 anni nel 1968 durante un volo di addestramento («io la guardai non me lo perdonò», riferito alla Terra, e «il mio sorriso se n’è andato via»), nonchè a ciò che "lasciava" sulla Terra durante la sua missione («bugie, volgarità, calunnie, guerre, maschere antigas»): un bellissimo pezzo. "Il pivot", pezzo simile a "Gagarin" nella metrica, descrive un incontro casuale fra un ragazzino ed un vecchio campione di basket, un pivot appunto, in un cortile di periferia "con il suo odor di cena e di tv". I due improvvisano uno scambio di palleggi e, nella suggestione del momento, immaginano spalti gremiti di folle inneggianti. Ma, appena si torna alla brusca realtà, la solitudine riavvolge il ragazzino, il pivot ed anche tutto l'ambiente circostante.

In "Nel sole, nel sale, nel sud", ambientata a Rio De Janeiro, si parla di un tassista brasiliano con "cicatrici sulle spalle dove le ali non ricresceranno più, l'anima profonda come i fiumi di quaggiù", ma nonostante tutto "lo vedi ballare lontano da qui sul filo dei tetti, più su, e c'è un'autostrada per il suo taxi, nel sole, nel sale, nel sud", probabile riferimento al Carnevale di Rio, come sottolineato anche dalla coda strumentale finale: c'è molta "saudade" in questo pezzo. In "Gesù caro fratello", cantata in romanesco, si denuncia l'abitudine sempiterna dell'umanità di utilizzare la religione a seconda dei propri scopi e bisogni: "Gesù Caro Fratello, venduto pè ricordino vicino ar Colosseo o dè fianco ar Presidente, cor vestito dè jeans, cor fucile o cor nome tuo pè ammazzà la gente"; ma la speranza è proprio l'ultima a morire: "T'avemo aspettato, t'avemo cercato, t'avemo chiamato, t'avemo voluto, t'avemo creduto. E avemo trovato te, ritrovato te ne l'occhi de chi spera, ne le rughe de chi invecchia, nelle domeniche de festa e ner tegame de chi è solo, nelle strade de chi beve, nei sorrisi de chi è matto, ne le manine de chi nasce e nei ginocchi de chi sta a pregà, nelle canzoni popolari e nella fame de chi c'ha fame. E fu come riavecce la vista dopo mille anni, fu come scoprì più in là nella boscaia folta er sentiero perduto": immagini molto belle e suggestive.

In "Quante volte", autobiografico e molto vivace musicalmente nonchè uno dei miei brani preferiti del canzoniere di Baglioni, si avverte un senso di insoddisfazione per la propria vita e la rabbia che ne deriva: emblematico in tal senso il passaggio "giro, salto e ballo come un orso ammaestrato", probabilmente riferito (anche) ai suoi rapporti dell'epoca con la sua casa discografica, tutt'altro che idilliaci; questo pezzo, musicalmente e anche nel cantato, mi ricorda molto un'altra canzone di Baglioni, "Quanto ti voglio", contenuta nell'album "Questo piccolo grande amore" del 1972. In "200 lire di castagne" si racconta la monotonia di una vita in fabbrica ed il sogno della protagonista di "strapparsi il camice di dosso e rotolare giù e scoprirsi il viso di allegria per non sospirare più", sogno destinato però a rimanere tale: "un sole pallido e malato è la sua realtà, domani è festa e finalmente potrà svagarsi un pò".

Anche nei brani apparentementi più allegri sia nella musica che nel testo, come "Romano male malissimo" e "Strip-tease" la solitudine è sempre in agguato. Nel primo si parla, con molta ironia, di un "romano de Roma" dai comportamenti molto particolari: "con i capelli incerti e con un'andatura a trottola lui s'avventura in mare con la giacca a vento sugli slip; dieci cornetti ogni mattina, cinque in un posto poi cambia bar"; o ancora "e ti racconta la sua barzelletta della pecora che nacque nera e dopo un'ora non si sa come finì, romano un grande cuore grande, le tasche piene di fiori". Ma poi: "ehi romano come stai? Sto male malissimo Lucia Lucì, io sto male tanto male io sto tanto male Lucia". Si capisce infatti che la sua eccentricità e particolarità tende ad isolarlo dagli altri più "normali". Pare che questo pezzo fosse dedicato ad un grande amico di Baglioni realmente esistito. Anche nel secondo pezzo, "Strip-tease", c'è molta ironia: in una specie di vaudeville, si parla di un locale notturno e di alcuni suoi frequentatori, come ad esempio "l'uomo di stato ha gli occhiali scuri e si è fumato già mezza tabaccheria, confonde sempre Sòfia con Sofìa", o ancora "là il colonnello è sempre in prima fila, forse sarà per via di qualche diottria; è grasso e muore di inattività". Ma anche qui si intuisce una sensazione di solitudine e noia che colpisce tutti i personaggi, compresa la spogliarellista: "mostrarsi alle dentiere e ai decolté non era esattamente ciò che lei sognava".

Per il sottoscritto un più che buon album sia nelle musiche che nei testi, intriso di ottime canzoni pop. Meglio solo che (mal) accompagnato dunque? Chissà! Ma già dal successivo lavoro, "E tu come stai?" del 1978, Baglioni ritornerà alle collaborazioni dopo aver cambiato casa discografica, dalla RCA alla CBS.

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