Come promesso torno a parlarvi di un album strano, cupo, pessimista, visionario, allucinante, poetico, nichilista, autolesionista e abbastanza originale: "Extranei" di Claudio Lolli (e di chi se no?). Lavoro del 1980 che fece debuttare il nostro stralunato cantautore addirittura a San Remo col pezzo "Come un dio americano" orecchiabile e ritmato quel giusto per sperare che il grosso pubblico si accorgesse di lui. E non fu così. Il pubblico non si accorse di questo capellone barbuto (Orrore: una barba a San Remo!!) né tantomeno Lolli si accorse del pubblico, ripagandolo involontariamente della stessa moneta. Difficile infatti far arrivare (e far digerire) al grosso pubblico le sonorità di quest'album avanti anni luce dai colleghi cantautori, che presentava soluzioni ritmiche nuove, aperture jazz, i giochi di parole e la costruzione stessa dei brani, sempre originale ed imprevedibile.
Ci sono le metriche di "Der Blaue Angel" che ricorda vagamente la "Settima Luna" di Lucio Dalla per la suddivisione in 8 capitoli del testo, la spumeggiante "La canzone del principe rospo", una favola surreale e cantata quasi fuori metrica con mille invenzioni linguistiche e letterarie ad impreziosire il brano, o il rimando tra le due canzoni "Il Muto" che si chiude con il verso "...fino a che costruirono IL PONTE" e la canzone appunto "Il Ponte" che di rimando chiude il disco con "...lo sguardo sereno de IL MUTO": due canzoni speculari ricalcate sulla stessa melodia, riarrangiata quel tanto per far percepire le due facce della stessa medaglia, due canzoni che NON SI TOCCANO appunto ma che vivono interdipendenti nell'assenza dell'altra. Una specie di "concept-album", come si usava allora, un discorso aperto sull' incomunicabilità o l'impossibilità di capirsi tra gli esseri umani (un po' "la Torre di Babele" di Edoardo Bennato, anche se qui non possiamo proprio parlare di "canzonette"). Classica nel suo incedere jazz anni '30 il brano "I musicisti" ci da un tassello inedito delle potenzialità musicali del nostro, sempre pronto a mettersi in discussione e capace di farsi coinvolgere da strumentisti raffinati e poliedrici. Altrettanto bella la canzone "Non aprire mai" coi suoi versi cantati su sonorità "quasi" solari: "C'è come una tela di ragno diceva, in cui mi sento prigionera, ho sulla pelle qualcosa o qualcuno che senza stancarsi mai ci lavora, mi copre di fili d'argento e mi lascia da sola a camminare in mezzo alla gente, vivere in fondo non è necessario, ma certo non è sufficiente. Ed è per questo, diceva, che io per me preferisco non dover scegliere mai, l'inizio o la fine e nessuna storia, la serenità non sa convivere con la memoria. Non mi sono mai conosciuta, diceva, e scommetto che non mi conoscerò, non saprei mai rigirarmi nei miei angoli ottusi, nei miei angoli acuti, preferisco svegliarmi per caso di notte e poi sparire in bocca al metrò, io preferisco i mesi agli anni, le ore ai giorni, i secondi ai minuti... "
Bellissima, evocativa e trasognante. Arriva poi "double face" una sorta di analisi-accusa di un rapporto martoriato padre-figlio, diviso e tormentato come, da adolescenti, è giusto che sia. Un album inquieto e misterioso dunque, certamente diverso dal panorama italico dell'epoca (ricordiamoci che stava nascendo "Rock'n'roll robot" di Camerini e da lì a poco sarebbero atterrati gli anni '80 con il loro scodazzo di glamour e paiette!). Appena 37 minuti (un po' pochini a dire il vero) di trip psicanalitico, fantasioso e intellettuale (senza stancare, il che non è poco!).
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