Beh, signori, per me l'Inghilterra è il pop. Certo, ci sono anche i fantasmi, le scatole di biscotti e tutta quella poesia tipo fulgida stella. Però dai, insomma, non c'è gara. E se alla tavola rotonda di re Artù siedono solo Ray, John e Syd, alla mia trovano posto anche cavalieri un filino più scalcagnati. Del resto la perfida Albione pullulava (e pullula) di tutta una serie di deliziosi “minori”, tanti piccoli Don Chisciotte di provincia per i quali nemmeno il più bislacco dei menestrelli si è mai sognato di scrivere uno straccio di canzone. Oggi parliamo del più negletto di tutti, ovvero il giardiniere/lavapiatti Martin Newell, genio del pop sotterraneo nonché socio onorario del magico club dei grandi stravaganti inglesi.

Ecco, questo nobile ragazzo è in giro da parecchio, addirittura dai primi settanta, quando non era che un fanciullo glam a capo di una band che dire senz'arte né parte è dire poco. Finita quell'esperienza e lasciata quell'improvvida masnada simil Slade, il nostro si butta poi in qualcosa di completamente insensato e cioè segue in un massacrante tour in Gemania (centocinquanta/ duecento concerti all'anno) uno smandrappato gruppo progressive.

Ma, dico io, com'è possibile passare dal glam al progressive? Tra l'altro in piena epoca punk? Come? La cosa sembra incredibile soprattutto se si considera che Martin è uno che lo sbam l'ha avuto in quel mezzo secondo di sospensione che precede la voce di Lennon all'inizio di “A hard day's night”. E' stato in quel preciso momento che, passando attraverso un caleidoscopio, il mondo è diventato a colori. E poi quel che gli interessava non era certo essere un grande musicista, oh no, no di sicuro. Il suo scopo era soltanto quello di scrivere delle belle canzoni. Che dopo aver imparato tre accordi non serve imparare il quarto, è scrivere quello che devi fare, è quella la chiave. Per il resto basta procurarsi una buona lacca per capelli e cavarsela un pochino con il jangle. E quindi, dai, dal glam al progressive, è una cosa che davvero non si può sentire. E infatti va in depressione...

Così, sia pure a malincuore, lascia i compari progsters e forma gli Stray Trolleys. E qui è già una faccenda pop, molto virato wave certo, ma pop. Ben presto le canzoni sono pronte (del resto ne scrive tipo quindici al giorno) e in un lampo c'è pure l'interesse dei discografici, così, ok, si incide. Solo che poi, a dispetto delle promesse, quelle canzoni non escono mai. Succede allora che (uno) Martin si stanca di aspettare e (due) prende una decisione clamorosa: evitare lacci e lacciuoli e saltare tutti i consueti passaggi, ovvero niente più case discografiche, né intermediari del cazzo.

In quei giorni la ragione sociale è già Cleaners from Venus e il pard di Martin è un certo Lol Eliot. I due lavorano nello stesso ristorante, giorno di riposo il lunedì. Ed è proprio di lunedì che la cucina di Martin si trasforma in uno studio di registrazione amatoriale, con quei due giovani cervelli in preda all'eccitazione creativa e agli strani vantaggi che la restrizione offre alla fantasia. Del resto, si sa, la necessità aguzza l'ingegno e meno per meno fa più. La musica che vien fuori, suonata con stranissimi strumenti fatti in casa, è uno sfarfalleggiare di trovate friccicose che portano nel paradiso del pop il favoloso songwriting di Martin. Tutto questo ben di dio verrà poi distribuito tramite cassette vendute per corrispondenza. Valore aggiunto le copertine disegnate con tratto infantile e sfavillante dallo stesso Martin il quale poi aggiunge: NO RIGHTS RESERVED – If you have money, buy it; if you don’t, copy it; if you do copy it write to… E si andrà avanti così per sette album.

“Living with Victoria Grey”, è il loro settimo album, oppure, se preferite, la loro settima cassettina. Siamo nel periodo in cui, a parte qualche sonorità tipo i Cure più cristallini, le istanze wave cedono il passo all'amore assoluto verso il suono dei sixties. Ray Davies, gli XTC meno sghembi, sir Paul e sir John + qualche isola di follia alla Bonzo Doh Dah band. Senza mai copiare, ma piuttosto cercando nella stessa direzione. E, quando si cerca, fa niente se il sentiero è già stato battuto, perché, appunto, comunque si cerca. Il risultato finale è un lavoro freschissimo che scorre come d'incanto. Scintille, tintinnio, biciclette, baci sotto la pioggia.

Ad esempio, tanto per dirne una, sarà vero che la chitarra di traccia uno raggiunge il cielo? Che “Mercury Girl” è una piccola cosa perfetta per pianola e rifrangenza? E che ci fanno a un certo punto i Belle and Sebastian in versione quasi soul? E quella follia di “Ilya Kuryakin” non è il classico esempio di kitsch ben riuscito? E riguardo a “Clara Bow”, come si fa a essere così squisiti? E la malinconia come fa a essere così scintillante? E perché John canta le canzoni di Paul e Paul quelle di John?

Chiudo dicendovi che, grazie a un manuale di botanica poetica, ho da poco scoperto l'esistenza degli alberi sotterranei. Tali clamorose creature vegetali se ne stanno sotto il terreno grazie a un geniale meccanismo di difesa. Essi si trovano in una zona della savana in cui i temporali provocano assai spesso degli incendi e essendo il terreno un isolante termico in grado di proteggere dal fuoco essi vi si pongono sotto, per far poi capolino, mostrando larghe pozze di foglie e di fiori, durante la stagione delle piogge. Ecco, secondo me, il prode artigiano Martin Newell, isolandosi nel piccolo laboratorio della sua cucina, si è, in un certo senso, comportato nello stesso modo. Ovvero ha protetto la sua musica dagli incendi esterni, mantenendola lieve, bizzarra e meravigliosamente personale. Sapendo poi che per lungo tempo si è mantenuto facendo il giardiniere, raccontandovi questa cosa mi par quasi di chiudere il cerchio. E il cerchio, tutti lo sanno, pure lui protegge non poco.

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