L’ultimo film di Clint Eastwood è profondamente organico con il predecessore, che va sicuramente rivalutato e giudicato con maggiore distacco. Sully è la versione pienamente riuscita di American Sniper: pur all’apparenza diversissimi, i due film raccontano la stessa cosa, che è evidentemente molto cara all’ultraottantenne regista. E quella cosa è l’America fatta di tanti mattoncini, minuscoli, ordinari, ma in verità fondamentali e caratterizzati da grandi qualità tecniche, sangue freddo, dedizione. L’eroe Sully è insomma una delle tante facce dell’eroismo quotidiano e normale su cui si costruisce la grandezza di una nazione; una vocazione quasi patriottica che si declina nel compiere ogni giorno il proprio dovere, nel modo più professionale e impeccabile possibile.

Sully ci mette all’angolo, perché ci costringe a rivalutare il suo predecessore. Il cecchino non è tanto diverso dal pilota di aerei civili, nell’ottima di Eastwood: compie il suo dovere, fa un lavoro difficilissimo e ci mette tutta la propria competenza e intelligenza ogni giorno, costringendosi a una vita anche non semplice, sacrificata, lontana da casa. E come vengono trattate queste persone dalle istituzioni? Beh, con grande freddezza e distacco. L’assenza dello Stato nei confronti dei veterani si trasforma qui in qualcosa di più sottile, ma non meno clamoroso: secondo le istituzioni Sully ha sbagliato, non doveva ammarare nell’Hudson, doveva tornare a LaGuardia. Insomma, l’America non riconosce i proprio eroi normali, anzi peggio, li accusa, perché non hanno fatto quello che gli era stato ordinato. Non importa che siano state salvate 155 persone, vengono prima le assicurazioni, l’immagine della compagnia aerea e tutto il resto.

Sully funziona meglio di American Sniper perché spiega questa dicotomia in un contesto civile, decisamente più accettabile e familiare rispetto a quello bellico. Ma la sostanza è la medesima. Anche perché qui il protagonista salva le persone, mentre l’altro le doveva uccidere. Se vogliamo dunque è un film più facile dell’altro, ma viene gestito anche con maggior lucidità dal regista. Siamo infatti di fronte a un’opera d’una asciuttezza clamorosa. L’occhio della cinepresa è austero, lontano dai sensazionalismi, ficcante quanto più possibile senza scadere in patetismi. Ed è questo uno dei maggiori pregi del film: il modo in cui racconta la storia, che poteva diventare goffamente celebrativa.

Eastwood invece lavora di lima per evitare le parti ridondanti, asciuga a circa un’ora e mezza il minutaggio e insiste sull’indagine interiore, sul momento fatale della scelta, sugli strascichi psicologici oltre che legali. Se vogliamo un film molto duro, distaccato, ma è quel distacco necessario a capire bene le contraddizioni insite in una nazione che arriva ad accusare un eroe che ha salvato 155 vite. I commenti della gente sono sempre significativi, la vox populi riconosce l’eroismo di Sully, come chiamava il cecchino «eroe». Sempre di numeri di vite si tratta, salvate o sottratte; da un certo punto di vista, molto cinico, sono entrambi dei fuoriclasse in quello che fanno.

Una delle trovate migliori consiste nel posizionare le vicende dell’aereo in mezzo al film, facendole rivivere al protagonista come un flashback. In questo modo lo spettatore sa già quanto saranno pesanti le conseguenze, pur nella riuscita dell’impresa, e osserva gli avvenimenti con uno sguardo appesantito, meno trionfante. E quindi l’impresa perde la sua brillantezza, diventa grigia, plumbea, come a dare rappresentazione immediata di un’America che non riconosce più i suoi eroi. A livello registico, il lavoro è ben fatto: nella semplicità dell’accaduto, Eastwood individua una serie di dettagli apparentemente insignificanti e li amplifica, perché su di essi si basa la grandezza del personaggio. «Il fattore umano» è proprio in quei dettagli, nel numero di secondi che vengono impiegati a prendere una decisione difficile, nella capacità di dosare i movimenti dell’aereo; lì emerge la grandezza di Sullenberger. E tanto basta.

Splendide nella loro pacatezza le interpretazioni di Tom Hanks e Aaron Eckhart. I loro sguardi sempre un po’ velati di preoccupazione e dubbio rendono perfettamente l’incertezza di persone eroiche nella loro normalità. Sempre senza enfasi, senza stracciarsi le vesti, ma senza cedere un millimetro nelle proprie convinzioni.

7.5/10

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