Continuo a insistere con Eastwood. Dopo "Bird", et voilà, "Un mondo perfetto" (1993). Titolo beffardo, eh già, perché: a) il mondo non è perfetto, b) questo film racconta un mondo agghiacciante, altro che perfetto. E si parte con Halloween, la notte delle streghe, dolcetto o scherzetto, zucche vuote e streghe nere. Poi c'è un evasione, segue un rapimento. Bhè, se questo è l'inizio..., alla faccia del mondo perfetto.

Clint Eastwood ha una certa età (è del 1930), è nato a San Francisco, qualche decennio l'ha sulle spalle, e qualcosa della storia americana conosce, e sa che gli Usa non sono proprio lindi e puliti. Scheletri negli armadi? No, direi, meglio, errori (e orrori) ben visibili, un po' come tutto il mondo, ma Eastwood è americano, e conosce bene il suo paese. Quando hanno ammazzato J.F.Kennedy aveva 30 anni e 11 film sulle spalle, ma non era ancora famoso. Gli Usa di inizio anni Sessanta, divisi fra guerra fredda e guerra ai negri, li ha vissuti, e col tempo li ha assimilati. Passati un pò di anni, dopo qualche western e ispettori violenti, ha deciso di fare un film proprio su quegli anni. I suoi anni.

Quello che ne è venuto fuori è "Un mondo perfetto". Sì, ok, d'accordo, non è il capolavoro della vita, ma è comunque un grandissimo film. Sì sì, ho capito, non passerà alla storia. Ma è comunque un grandissimo film. Perché? Perché dentro "Un mondo perfetto" c'è tutto l'Eastwood style e l'Eastwood pensiero. C'è una storia, tragica, spietata ("Gli spietati"?). Di uomo che fugge, porta con sé un bambino, lo tratta bene, poi muore, e il bambino ci rimane male. Sì è vero, non è proprio originale come idea, però qui è più efficace che altrove. Perché il rapporto criminale/ostaggio non è quello dei film carcerari, è il rapporto tra un adulto e un bambino, quindi ancora più torbido e complesso. E perché soprattutto, Eastwood ha voglia di volare alto, di sezionare altri temi: l'America distrutta e insicura, senza più né patria né ideali, senza famiglie e senza padri, capace di uccidere i presidenti e i criminali da quattro soldi come fossero la stessa cosa. Prepotente nel dichiarare ostilità alla Russia, ma incapace di badare ai propri figli. Le contraddizioni di un paese, le contraddizioni di sempre.

Esemplare Eastwood, che mette in scena la storia con un rigore stilistico difficile da eguagliare, forse freddo e distaccato, ma anche preciso, puntuale, senza inutili ghirigori artistici, puntando sempre all'essenziale, anche a costo di sembrare snob e fuori dal tempo. Poi vabbè, si capisce fin dall'inizio come andrà a finire (il cattivone muore e buonanotte ai suonatori), ma che importa? Non è questo l'essenziale. L'essenziale è comprendere quello che c'è sotto: un road-movie anomalo dalla parte dei perdenti, di chi, per propria natura, è destinato a fallire. Tutte le metafore made in Usa sono accuratamente volute. E' un film che racconta gli anni Sessanta, ma è composto e strutturato come un film degli anni Cinquanta.

Straordinaria prova del cast. Number one Clint Eastwood, secco, rude, mai una smorfia fuori posto o un sorriso regalato per sbaglio. Eccezionale. A dimostrazione del fatto che spesso, al cinema, valgono più le interpretazioni sottotono rispetto alle performance ipergigioneggianti e su di giri (l'ultimo De Niro ne è la sconsolata riprova). Poi Laura Dern, la triceratopesca esploratice di "Jurassic Park", nonché ispiratrice di molte opere di David Lynch. Infine c'è lui, Kevin Costner, lontano dai lupi e non ancora annegato in "Waterworld". Non più bello e gagliardo come sul finire degli anni Ottanta, ma finalmente umano e reale, intenso e bravissimo. Un antieroe, un Gary Cooper moderno, come lo ha definito qualcuno. Di sicuro, la sua prova d'attore più bella. Perché tragicamente reale.

"Un mondo perfetto", più che un film, pare un libro. Uno di quei libri che sfogli ogni tanto per sentirti in pace col mondo. O solo un po' più consapevole. "Io non so niente" dice Eastwood. E' lì la chiave del film.

Accusa finale. Da parte di alcuni, non di tutti, sia chiaro. Quale accusa? Il finale è sdolcinato. Già, perché secondo alcuni, un personaggio che muore a fine film fa diventare, automicamente, il film stesso sdolcinato. Ma per carità, la sdolcineria è ben altra cosa. Qui, al massimo, si può parlare di emozione, di commozione. Magari, se sei un po' romantico, ti fa scendere la lacrimuccia. Ma d'altronde (domanda da porgere ai duri e puri, vulnerabili tanto quanto gli altri): che c'è di male a commuoversi durante un film? Nulla. E allora commuoviamoci, orsù, il cinema (ogni tanto) dovrebbe anche fare emozionare.
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