Mica il Sigore ha fatto scendere in terra geni che si sarebbero dedicati al jazz o al prog più colto. L'Inghilterra delle industrie e delle fabbriche fumanti non si scoraggia davanti alla supremazia del Canterbury sound o alle scale di Fripp di "Larks'..". Si concepisce una nuova concezione del far musica, sfruttando anche i passi effettuati da synth, VCS3, moog ed elettronica in generale. Si estremizza il concetto di canzone, si manifesta una nuova disperazione, depressione e vita tormentata dell'uomo. Si ha come Bibbia l'incedere di "Sister Ray" e la declamazione di "We Will Fall", che sarà utile agli Swans di "Cop". Nella metà degli anni settanta si attua una dissacrante contestazione ai canoni sociali e artistici. Ci si distacca dallo schema prolisso del prog "post 1974" con "Metal Box" dei PIL del 1979, ancorati però ad uno schema vicino al post punk nonostante arricchiti dal basso dub pulsante di Jah Wobble. Anche prima di questo lavoro ci sono stati episodi di alto livello con la miscela funky afro/post punk di "Y" dei Pop Group, con il jazz unito alla new wave dei Tuxedomoon e con i Cabaret Voltaire di "Mix Up" e i Throbbing Gristle dei primi dischi. Seminali a dir poco. I live di questi gruppi erano delle macchine da guerra, specie gli eclettici Throbbing con il folle Orridge..

Nel 1980 a Sheffield si formano i Clock DVA con Adi Newton e Steven Turner, influenzati dai suoni citati pocanzi e dall'unire il rock con le arti visive. Il clima che si respira in quel periodo è eccitante, il futurismo viene omaggiato a più non posso nelle luci dei live, le proiezioni artistiche dada impressioniste si uniscono alla musica e le novità escono da ogni angolo. Camaleontici a dir poco, i Clock con l'aggiunta di Paul Widger (chitarra), Charlie Collins (sax) e Roger Quail (batteria) si impostano come una vera band. Il disegno che tracciano è quello di riprendere il jazz più lancinante e squillante miscelato con un mood tetro. Si rende il suono minimale, rarefatto ma allo stempo tempo nevrotico e arcigno. I brani superano i cinque minuti di durata e si dilungano in dialoghi tra sax, batteria e chitarra acida, senza scendere in eccessivi manierismi. Coinvolgente a dir poco.

"Consent", "Discontentment", "Relentless" e "Non" sono caratterizzati da queste connotazioni. Si frantuma il riff portante e ci si concentra nell'accostare le improvvisazioni jazz con le strutture prossime dell'industrial, che in questo primo lavoro risulta ancora acerbo e agli antipodi. C'è più che altro la volontà di creare una disorientante melodia per poi arricchirla lentamente dagli squittii del sax e dalla saturazione della chitarra. E' come se il sound fosse scisso in minimissime particelle che piano piano, con l'andare avanti della jam, riescono a disegnare il volto del brano. E' quindi un contenitore che possiede il "vecchio" e il "nuovo". Un ottimo aggiornamento del concetto rock insomma.

Dopo questo primo lavoro, che si diverte a ubriacare il Beefheart più sgangherato e a sbeffeggiare i sacri passi della psichedelia, avremo il secondo disco "Thirst", che testa una continua ispirazione, l'overdose del bassista Turner e la consacrazione con "Advantage", con un sound nettamente più diretto.

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