Fuliggine psichedelica.

Questa potrebbe essere la chiave di lettura del nuovo disco dei tre sparuti geniacci del post-moderno in musica.
Sfarfallii elettronici di beats contagiosi spiazzano e scompigliano, uno spoken word ispirato, talvolta, viene seccamente amputato da una bellissima melodia vocale pop, ma diretta con ingegnosa e strategica stravaganza.
Altrove, uno spartito per organo viene capovolto e filtrato, ritmato allo scopo di condurre ad una danza epilettica e generalmente cerebrale.

“Ten” riserva, nel corso della tracklist, piccole sinfonie lo-fi che ondeggiano tra hip –hop graziato e maledetto ad indie rock di matrice americana, da certo pop sperimentale (prendete per esempio Amnesiac dei Radiohead) all’elettronica ambient diabolica e creativa degna del catalogo Warp e, in particolare, dei Boards of Canada.
Qui, l’equazione suono=spazio si affila sempre più ad ogni ascolto. Qualcosa tace, cauterizza per un attimo i tumulti e risuona dolcemente, quasi sussurrando, voci di alieni dediti agli stupefacenti.

“Ten” non è altro che il paziente a cui i cLOUDDEAD (sì, scritto proprio così!!!), chirurghi autodidatta, promettono cura e devozione prossima il più possibile all’ ineffabile. Ed ecco che basta pazientare e dal pastiche allucinogeno si giunge, piuttosto improvvisamente, alla carezza. Un’irrinunciabile carezza dal profumo di violetta. “Dead dogs two” è un incontenibile giro di danza digitale e smaccatamente irresistibile nel refrain (che ricorda quasi inspiegabilmente gli ultimi Yuppie Flu, ma con maggiore istinto).

Ma nell’allettante luna park dei cLOUDDEAD si celano anche, mai abbastanza a dir la verità, influenze filmiche e granelli sonori di Angelo Badalamenti (sentire “Rymers’s only room”), ormai entrato di diritto tra i compositori più influenti per i musicisti che si avvicinano a certe determinate atmosfere. E così dal diamante popedelico (“Son of a gun”) fiorisce un involontario(?) omaggio alla new wave più dark in salsa elettronica (“The velvet ant”), dall’Hip Hop sfaccettato e meno convenzionale (“Rifle eyes”) germoglia una filastrocca di psichedelia moderna (“Physics of Unicyle”) che frigge una tiepida aria primaverile.

I cLOUDDEAD godono di una splendente grazia: uccidono qualunque modello e categoria senza lasciare una minima traccia e/o riferimento del loro passaggio. E riescono nell’impresa di essere Serial killer delle voghe apparendo invidiosamente tendenti. Di costume. Dunque, non ci sono parole che riescano almeno solo a sfiorare la lucidità e l’attendibilità nel descrivere questo serbatoio di idee e concentrato di follia (intesa come coraggio artistico), ma una cosa a me è chiara. Questo è un grandissimo disco (il primo, e ahimè ultimo loro, grande del nuovo anno). Da perderci il sonno e la testa. E il fatto che sia una produzione artigianale (come il gelato) fa si che lo si preferisca senza esitazioni a certi artifizi di natura esclusivamente mercantile.

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