Così come la rivolta operaia non è più di moda, il cantautorato è ormai solo un ricordo. Non abbiamo scordato Gaber, è semplicemente che, ora come ora, un Gaber sarebbe fuori-luogo; persino gli ultimi dischi di Guccini, “Ritratti” e “Stagioni”, hanno perso quella patina politica che, secondo alcuni, connotava tutti gli altri: certo, rimangono quadri di Guevara e la ferita aperta di Piazza Alimonda, ma non sono l'”Avvelenata”, non sono “La locomotiva”. E non lo sono perché non avrebbe senso che lo fossero. Prendete il dittico “Stagioni”, che, va be', Guccini aveva riposto nel cassetto ma che aveva iniziato a scrivere molto tempo prima delle tracce presenti su “Stagioni”, e “Canzone per il Che”: sono due ritratti, da una parte (“Canzone per il Che”) si parla di un'amicizia, di un ideale che il tempo – e la Storia, purtroppo – smagrisce, dall'altra della sconfitta non di Ernesto ma di un'intera generazione, dei miti andati perduti eccetera eccetera. Certo, qualcuno ancora c'è, ma è un cantautorato diverso, istrionico, etnico. Penso a Capossela, per esempio. O a chi altri. Eppure la politica ci permea, invade ogni singolo anfratto della vita quotidiana, e probabilmente gli italiani non si sono mai ritrovati così d'accordo su un punto: che la politica è una fregatura, che parlamentari, senatori, gente di partito e chi più ne abbia più ne metta dovrebbero sgomberare le poltrone (c'è un detto, dalle mie parti. Impiccarli di notte, per non perdere tempo di giorno. L'altro giorno l'ho sentito dire da un vecchio mentre aspettavo che il barbiere mi tagliasse i capelli.) Non è quindi un caso, per esempio, che Rodriguez abbia scelto recentemente di trasportare “Sin City” sul grande schermo, perché mai come ora Marv, l'antieroe milleriano per eccellenza, è tanto necessario quanto paradigmatico: è la rivolta operaia che non è più di moda, è il singolo che deve agire da solo per andare contro il potere.

I Club Dogo sono un po' come Marv e, al di là delle affinità di comportamento/ideologia, possiamo affermare con assoluta certezza che i Club Dogo, negli anni Ottanta, non avrebbero cavato fuori un ragno dal buco, non fosse altro perché il rap ci insegna un'estetica diversa da quella cui siamo abituati (da questo punto di vista, è molto postmoderno come genere, data la sua capacità di convogliare elementi di vario genere – dalla marca delle sigarette a Van Gogh – in un unico testo, roba che gente come Barth, Jullier, Lyotard &cc. ha speso la vita a teorizzare e concretizzare).Non sono un esperto di rap e, onestamente, non me ne interessavo fino a poco tempo fa (e ancora adesso il mio interesse si limita ai Club Dogo e un libro che Wallace scrisse a proposito). Lo trovo un fenomeno sociologicamente interessante, e anche culturalmente. Prima di tutto, perché è un genere più o meno recente e popolatissimo, quindi, come il cinema delle attrazioni e dell'integrazione narrativa, non essendoci ancora una grammatica prescrittiva, il terreno su cui si muove è fertile di sviluppi, sperimentazioni &cc. D'altrocanto, il rap non ha nemmeno una propria ontologia codificata. Voglio dire, potrei sviluppare questa recensione con paragrafi lunghissimi, muri di testo che vi facciano sanguinare gli occhi e concluderli tutti con una parola che termina in -rto. Ho fatto una rima? Oppure: basta una rima e qualche beat per il rap? Come si giudica un flow ben fatto? Perché è necessario chiudere le rime? Un giorno, qualcuno codificherà tutto questo – non io e non qui, anche perché negli ultimi giorno ho amato diverse persone (nes, March Horses &cc.) in DeBaser e so che questo non è il luogo per discutere dei Dogo, tantomeno degli ultimi Dogo; eppure, io trovo molto più interessante gli ultimi Dogo che i primi, quelli di “Mi Fist”, per intenderci; del resto, ci sono pochi luoghi dove poter parlare di “Noi siamo il club”, visto che persino i fan odiano una delle canzoni italiane più interessanti degli ultimi quindici anni, ovvero “Chissenefrega (In discoteca)”, su cui vorrei ritornare.  Il punto è che è davvero difficile, anche per uno come me (sì, ascolto molta roba, sono curioso, ma alla fine ho pochi chiodi fissi, e alla lunga sono gli unici artisti di cui ho i CD originali e che tengo nell'iPod: de André, Nick Cave, Guccini, Gaber, Tom Waits, A Silver Mt. Zion e poca altra roba), cresciuto a pane e Guccini e che riconosce un solo padre putativo, ovvero Nick Cave, arginare i Dogo come fenomeno spastico o che se ne voglia dire: prendete la discografia dei Dogo e dividetela a metà cronologicamente. Quindi, ascoltate gli album. La prima cosa che notate è il gioco che Guè, Jake e Joe fanno con loro stessi, o meglio con loro-stessi-in-quanto-Dogo; infatti, ciò che emerge nei primi tre dischi – grossomodo – è una colata lavica di [aperte le virgolette] ostruzionismo [chiuse le virgolette] e rabbia nei confronti del potere e di solidarietà verso la [aperte le virgolette] gente di strada [chiuse le virgolette], mentre ciò che emerge negli ultimi è, in qualche modo, maggiormente autoreferenziale (“Voi non siete come noi” potrebbe essere usata a prototipo di quanto sto dicendo), e insomma si tratta di autocelebrazione (si badi bene: con “autocelebrazione” non intendo semplicemente il glorificare se stessi, ma anche il solo fatto di parlare di se stessi, perché il fatto che si faccia una canzone in cui si dica che si preferiscono le Nike alle Adidas è palesemente un tra virgolette porre i propri gusti di calzature su un piano diverso, trascendente quasi: se canti qualcosa e la incidi significa che la ritieni importante, o quantomeno interessante. Per questo parlo di autocelebrazione, diciamo “autocelebrazione indiretta” così da non far confusione). Ora, questi due differenti format di coscienza discografica – chiamiamola così in absentia di termini migliori – potrebbero benissimo essere letti secondo la classica dialettica hegeliana della tesi/antitesi, cui in futuro – a rigor di logica e di matematica, già col prossimo disco – si aggiungere una sintesi: è un mostro che mangia se stesso per ricrearsi, o almeno questa è la miglior immagine che mi son fatto dei Dogo.

Sarebbe sbagliato, detto questo, pensarli come una band dal background indefinito, senza un filo conduttore o qualcosa di simile, tant'è che le divisione in due differenti periodi, per quanto ammissibile, resta una divisione di comodo come lo sono tutte le suddivisioni. “Noi siamo il club”, in questo senso, si apre con un pezzo, “Cattivi esempi”, che sarebbe potuto benissimo essere stato messo in “Mi fist”, così come “Che bello essere noi” contiene tracce quali “Anni zero” e “Qualcuno pagherà” (perla, quest'ultima), che teoricamente dovrebbero esulare da questi due dischi secondo la divisione precedentemente fatta, ma quel che conta è l'amalgama, e come Hegel o chi per lui insegna l'Aufhebung, ovvero, banalmente, il passaggio tesi/antitesi, non è solo un passaggio di superamento ma anche di conservazione, ed è dunque ovvio che nell'antitesi (nel nostro caso “Dogocrazia”, “Che bello essere noi”, “Noi siamo il club”. Tra l'altro, notate come in questi dischi l'elemento noi-Dogo sia predominante, e per ciò rinvio alla divisione di cui sopra) permangano elementi della sintesi (“Mi fist”, “Penna capitale”, “Vile denaro”); “Cattivi esempi”, insomma, è la traccia che non può non essere stata fatta e contiene in nuce quanto appena detto: sostanzialmente, sviluppa il motivo del conflitto generazionale. Per chi avesse seguito il faccia-a-faccia tra gli esponenti del PD in corsa per le primarie, avrà sicuramente notato la discrepanza Renzi/tutti-gli-altri alla domanda di scegliere quale che fosse il personaggio storico preferito, domanda alla quale Bersani e Vendola hanno dato risposte cattoliche, mentre Renzi ha optato per una blogger tunisina abbastanza giovane e soprattutto conosciuta tra i giovani: non bisogna avere tre lauree in tasca per capire che, oramai, il PD se ne frega altamente non solo degli elettori tra virgolette fedeli (si pensi agli ex-PCI, a quelli di Rifondazione &cc. &cc.), perché bene o male sanno già di avere i loro voti in tasca, ma persino delle idee (appena Vendola ha detto Cardinal Martini, mio padre ha esclamato: “Ma davvero?!” tra l'attonito e il depresso) e puntano invece a racimolare quelli che sono più in forse, i cattolici appunto e i giovani. C'è qualcosa di male in tutto questo? Assolutamente no. Certo, qualcuno avrebbe potuto buttar là un Gramsci, un Togliatti o un Matteotti, visto che nessuno di questi tre credo sia definibile come pericoloso comunista, ma di per sé non hanno fatto i nomi di gerarchi fascisti o di mafiosi, quindi nulla da dire. Il problema si presenta quando noti che le idee sono subissate dalla brama di prendere voti e, d'altro canto, dal fatto che molta della colpa di tutto ciò, secondo alcuni, ricade su noi giovani. Luogo comune o no, noi giovani veniamo considerati degli idioti, delle esche, dei burattini, dei futuri-cassintegrati (se non, peggio, dei futuri-disoccupati), delle amebe che non hanno la forza di cambiare nulla: la certezza è una sola, e cioè che c'è qualcosa da cambiare. Il quid non è importante (ora), importante è avere coscienza che urge un cambiamento e che, dunque, qualcosa deve averlo portato, questo stato di cose per il quale urge un cambiamento, quindi è lapalissiano che, purtroppo o per fortuna, i giovani c'entrano poco, e che tutto questo è stato frutto di anni e anni di governi democristiani, di mafia allo stato, di sinistra sempre sconvolta e mai unita &cc. &cc.: “Se adesso mi comporto male, peggio di un politico, è perché, i cattivi esempi, fra', io li avevo già da piccolo”. In questo testo c'è solo distruzione, affossamento, rabbia. È il principio dell'anarchia, almeno nella sua fase di Verwirrung, di confusione – la confusione di chi si sveglia da un sogno e precipita nella realtà (“Pensavo fosse amore invece era MDMA”); tuttavia l'anarchia non è solamente di-struzione, ma anche co-struzione, cioè Ordnung, e la cosa interessantissima è che di quest'Ordnung i Dogo non fanno parola: preti pedofili, città metropolitane in cui è impossibile vivere in “questo paese bugiardo guidato da infami e da carabinieri” eccetera. C'è solo l'orrore del quotidiano, il malessere e la grettezza che una generazione di registi neorealisti o della Nouvelle Vague o ancora prima, con Vigo &cc., hanno cercato di mostrare e di cui il rap vuole essere, a suo modo, espressione (“Ragazzo nella piazza”) in modo genuino e sincero quasi che queste rime non siano proprie dei Dogo ma di chiunque le canti o le ascolti (e in questo caso “Sangue blu” è il connettivo tra i Dogo e gli ascoltatori dei Dogo), e non appare dunque più un mistero come il rap sia alla ribalta in Italia solo recentemente. L'Ordnung, in questo CD, ma probabilmente persino nelle teste di Jake, Gué e Joe, non esiste, o meglio non è ancora un problema, perché la questione primaria è Verwirrung, ed è una questione di così primaria importanza da non ammetterne altre. 

O almeno, così sembra. A dire il vero i Dogo, una soluzione, ce l'hanno, ed è una soluzione di pascoliana memoria, che io ritengo il punto di forza creativo-commerciale del trio. 

Qualche paragrafo in là avevo accennato al pezzo “Chissenefrega (In discoteca)”. È il pezzo che me li ha fatti conoscere, o meglio che mi ha portato a dargli un ascolto in più di quello a caso preso da YouTube. A dire il vero, i Dogo li conoscevo di fama: avevo un amico che li adorava, ma io ero troppo impelagato con il post-rock (allora alle origini) per dargli retta; ora, ora che il forum della Paninicomics ha chiuso e MSN Messenger è caduto in disuso, non l'ho più sentito (tra l'altro, Mad Goblin, se sei ancora fan dei Dogo (ma anche se non lo sei) e stai leggendo questa recensione per caso o per sbaglio, fatti vivo: in buona parte la scrivo per questo, se non soprattutto), lui, così quel pezzo, “Chissenefrega (In discoteca)”, ha avuto per me, profano non solo dei Dogo ma persino del rap, un effetto strano, tra il nostalgico e il non-so-che. Sul Tubo, inoltre, e andando a curiosare qua e là (forum, siti &cc.) pare che nessuno abbia davvero apprezzato questa traccia, e alcuni sono addirittura arrivati a insultare i Dogo di cui si dicevano essere dei grandi fan. Ma di cosa parla, realmente, “Chissenefrega”? La risposta più logica da dare, specie dopo averla ascoltata un paio di volte, è: chissenefrega. Sì, perché la canzone non è altro che un'autocelebrazione (diretta), un continuo glorificarsi &cc. &cc. O almeno, a prima vista. Quello che molti non capiscono è che “Chissenefrega” è un fondamentale anello di un qualcosa che si chiama “Noi siamo il club”, che finisce con “Se tu fossi me”, ed è sostanzialmente impossibile valutare quella canzone senza inserirla nel contesto dell'album, e in questo senso “Chissenefrega”, che sviluppa il tema dell'autocelebrazione come “P.E.S.” ed “Erba del diavolo”, sebbene queste due lo facciano in maniera più velata, cioè indirettamente, è forse la chiave di volta del disco, se non il miglior pezzo del disco – sicuramente lo spartiacque. Della vita dei Dogo non so molto, ma da come si presentano sembra che la loro gioventù sia stata quantomeno brada, vissuta molto sulla strada &cc. &cc. Chi avrebbe detto che quei tre lì avrebbero firmato con la Universal? (Ci sono molte canzoni su questo tema, io mi limito a citare “Brucia ancora”.) È questione di crederci, di sogni che si avverano in una realtà dove non è permesso sognare, la realtà di cui si parlava sopra, quella di “Anni zero”. E di prendersi la propria rivincita. Ecco il continuo autoglorificarsi, l'esorcizzante dire “Ce l'abbiamo fatta”, perché sotto quel io-sono-un-figo-perché-ho-fatto-successo c'è tutto questo: e tutto questo è una spinta, un incoraggiamento ai fan di perseguire i propri sogni &cc. &cc. D'altronde, mutuando una frase ed estrapolandola dal proprio contesto, “tutto è possibile negli anni zero”, dagli omicidi in carcere per mano poliziotta alla rivincita sociale che, per alcuni, può rappresentare il successo. 

Ciononostante, “Chissenefrega (In discoteca)” non è il vero senso dell'album, o meglio non è il suo compimento quanto piuttosto l'anello che connette le due parti, uno spartiacque tra la prima parte, appunto, ovvero la descrizione della realtà e, insomma, ciò che sopra si è detto, e la seconda che, come anticipato, è il nido pascoliano.

Ho insistito molto sul fatto dell'oggettivazione della miseria morale, culturale, politica, economica &cc. in cui siamo e sulla necessità di un affossamento di questo status quo e ho anche parlato del fatto che il post-affossamento non è tanto un problema per la gravità della situazione: il problema è che tutto questo è solamente teoria. Sappiamo tutti quanti che, per quanto ne si senta parlare e per quanto urga e per quante persone la vogliano, una rivoluzione (“Vota MdR.: Movimento di Rivoluzione”) non arriverà molto presto e, semmai arriverà, sarà un processo lento e pieno di sofferenza; naturalmente è impensabile che tutto questo venga svolto, che si manifesti e ci si indigni senza punti fermi, senza un domani ben chiaro in testa o qualcosa che ti faccia scrollare di dosso i pesi che porti addosso. E questo qual cosa è quello che per Pascoli era il nido e per i Dogo è il club. Prendete “Tutto ciò che ho” o “Se tu fossi me”: sono pezzi sorprendenti, e sono sorprendenti perché è da pezzi come quelli che si spiega l'enorme successo dei Dogo, nonché la loro meravigliosa presa sul pubblico. Qui il “club” viene visto come un mezzo di aggregazione in un mondo o in un paese o in una società che disgrega, cioè il club comporta un sentirsi membri, un sentirsi qualcuno. Acquistare una propria individualità o recuperarla. Chiamatelo nido, chiamatela famiglia, chiamatelo gruppo di amici o, a mo' dei Dogo, chiamatelo club: sia quel che sia, quel che conta è che non conta che sia necessariamente il club dei Dogo a svolgere questa funzione, quanto piuttosto il rilancio – da parte dei Dogo – di una dimensione affettivo-sociale che rare volte è apparsa in musica (de André non l'ha mai toccata, Guccini qualche volta) e mai – almeno stando alle mie conoscenze – in modo così lampante, e conta soprattutto la consapevolezza che ne abbiano, la coscienza di sapere che non c'è niente di più importante di questa dimensione, sia essa data dalla fidanzata o dalla famiglia, dagli amici o da Totoro: qualcuno. 

Pace.

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