E' il 1972. Esce "Cluster II", opera seconda del nuovo corso artistico della creatura di Dieter Moebius e Hans-Joachim Roedelius, già dediti a sonorità cosmiche fin dal lontano 1969 (nati sotto il monicker Kluster, si tramutano in Cluster dopo l'abbandono di Conrad Schnitzler) e noti ai più per aver iniettato in Eno il virus dell'ambient.
Il 1972 è però anche l'anno di "Zeit", probabilmente l'apice artistico dei cugini Tangerine Dream. Ed è anche l'anno in cui il "santone" Klaus Schulze dà alle stampe "Irrlicht", destinato a divenire l'opera simbolo della Kosmische. Ed è infine l'anno di "Hosianna Mantra" dei Popol Vuh (già fuori dall'elettronica), forse l'album più bello mai uscito nella storia della musica moderna. Ebbene, innanzi alla grandiosità delle opere di cotanto illustri colleghi, è ovvio che il lavoro dei due tedeschi si assesta un gradino sotto. Le 4 stelle sono d'obbligo, quindi, ma questo non significa certo che non valga la pena considerare con estremo interesse la musica di questi due folli sperimentatori, i quali rappresentano certo il volto più umano di questa prima ondata di pionieri dell'elettronica che ha caratterizzato la Germania dei primi anni settanta.
"Electronic music with a human face", non a caso, è la definizione con cui i due amano definire la propria arte. Ed è proprio questo aspetto a renderli un caso anomalo, loro che con un certo orgoglio affermano di non essere schiavi dell'elettronica, dei "meri spippolatori di pulsanti, interruttori e rotelle". Per i Cluster, evidentemente, l'elettronica è un mezzo per ampliare il proprio range espressivo, e non un fine in sé. L'approccio dei due è infatti ancora piuttosto fisico, concreto. La musica, come dire, è "suonata", il processo creativo è ancora incentrato sull'improvvisazione, e non è un caso che le foto del booklet interno ritraggono i due musicisti intenti a maneggiare chitarre e tastiere.
Meno caotici del passato, infatti, i due raggiungono con questo album il perfetto equilibrio fra improvvisazione e programmazione: accantonati i sequencer analogici, i Nostri preferiscono intrecciare sapientemente la tecnica della ripetizione in loop di nastri con l'arte del jammare, facendo un uso a dir poco anomalo degli strumenti dell'elettronica. Una sorta di elettronica in progress, quella dei Cluster, che coniuga sapientemente pattern precostituiti con il coraggio dell'improvvisazione e che viene infine a rilucere del valore aggiunto dell'intuizione.
Aspetto, questo, che li avvicina senz'altro al kraut più audace, anche se parlare di rock rimane proibitivo: è il pulsare ondulatorio dei suoni in loop a dettare i non-tempi di queste sonate spaziali, sono le spirali ipnotiche dell'elettronica a disegnare gli schemi di questi affreschi psico-cosmici, sono le allucinazioni spudoratamente fantascientifiche a ricondurli all'ovile della musica cosmica. Ma laddove i Tangerine Dream e Schulze puntano all'estraniazione, al disorientamento, all'ascesi mistica data da suoni dilatati, statici e ripetuti all'infinito, i Cluster, forse più rozzamente, si accontentano di allestire una sorta di psichedelia spaziale, dove non si lesinano certo chitarre e sintetizzatori (la chitarra liquida e riverberata di "Imsuden", per esempio, o l'organo spaziale di "Georgel", incubo di frequenze deformate che da sola vale l'acquisto dell'album!).
Il concetto di fondo è che i Cluster puntano all'essenza delle cose, pretendono il controllo su ogni singola nota: non hanno evidentemente bisogno di stemperare le idee all'infinito in lunghissime suite, non cedono al fascino delle chilometriche derive droniche, bensì, più vicini ad una certa tradizione progressive, concentrano notevoli progressioni in spazi tutto sommato contenuti. E così, laddove Schulze e Tangerine Dream vanno ad allestire composizioni di 20-30 minuti di intangibili fluttuazioni sonore, di temi che si reiterano e variano impercettibilmente, i Nostri solamente in due frangenti sforano i 10 minuti, e addirittura riescono nell'impresa di lanciarci verso i remoti spazi siderali nei soli 2 minuti e 40 secondi della conclusiva "Nabitte", il tempo necessario per far sì che il funereo rintocco di piano che apre il brano si stemperi in gorgheggi alcolici e si trasformi infine in una sbilenca e sgangherata cavalcata verso il Niente.
Perché la forza dei Cluster sta proprio nell'azzardo, nel rischio, nell'imprevedibilità che caratterizza il processo creativo e che si riversa negli umori delle composizioni, raffiguranti mondi in equilibrio instabile sull'orlo del collasso definitivo. Insomma, l'avrete capito anche da soli: se vi aggradano le sonorità ammaestrate da Schulze, Tangerine Dream e primi Popol Vuh, di certo non potrete fare a meno di questo piccolo gioiello di nevrosi cosmica. Buon viaggio!
Carico i commenti... con calma