È illuminante che in un genere tradizionalmente conservatore come il Black Metal possa nascere un rinnovamento totale, estetico ed interiore. Non siamo dalle parti di Mayhem o Darkthrone, bensì in quell’avanguardia americana che fa capo a band come Nachtmystium o Altar Of Plagues. Ormai di Black Metal è rimasto poco, forse lo scheletro di qualche brano, reso di volta in volta irriconoscibile da cascate di post-core, noise, industrial, psichedelia e ambient.

Se la creatività passa dal rinnovamento, il rinnovamento non può prescindere dai Neurosis, inesauribile fonte di ispirazione per ogni adepto della musica estrema del nuovo millennio. Ed è proprio dallo storico gruppo di Oakland che il duo Cobalt attinge a piene mani la sua linfa vitale, senza trascurare le influenze letali dei Tool e persino dei moderni Mastodon.

Terzo album del gruppo datato 2009, “Gin” enfatizza ulteriormente le contaminazioni aliene (per il genere) e trasla il Black Metal verso qualcosa d’altro, di fortemente personale. Illuminati tra gli illuminati, i Cobalt si distinguono per un’iconografia insolitamente colta (l’icona Hemingway in copertina, l’icona Jarboe tra gli ospiti) e per un talento indiscutibile nella loro arte viscerale, cha affonda allo stomaco e corrode da dentro. L’impeto di certi frangenti, e in parte lo screaming del cantante sono quelli del Black Metal, ma le strutture dei pezzi richiamano le progressioni cervellotiche dei Tool imprigionate nelle gelide gabbie del post-hardcore.

C’è una vivida tensione emotiva che si agita sullo sfondo senza mai allentare la presa, che affiora prepotentemente proprio nei brani meno veloci. È esemplare in tal senso “Dry Body”: una meditazione a là Minsk che scava pozzi di psichedelia nera, mentre nel mezzo di “Pregnant Insect” sembra di ascoltare gli Swans in preda ad una delle loro estasi trascendentali. La furia si fa strada nelle astrazioni grindcore di “Arsonry”, “Stomach” e “Two-Thumbed Fist”, ma finisce puntualmente per sfociare negli ossessivi tribalismi da catastrofe imminente (impossibile non pensare ai Tool del periodo migliore, quelli di Ænima). Nel flusso ininterrotto di convulsioni post hardcore trovano spazio sussulti stranianti (“A Clean Well-lighted Place”), proiezioni distorte dell’universo ambient (“Throat”), allucinazioni iper-realiste (“A Starved Horror”) e rilassanti bagni nel mercurio (“Gin”).

Le stesse liriche, anziché seguire gli stilemi del Black Metal, sono animate da aspre manifestazioni di pessimismo antropologico: “Let’s burn down together, Let’s burn down our houses together, Let’s burn down forever, Let’s burn down our children together” declama Phil McSorley in “Arsonry”, una cattedrale di ricordi data alle fiamme. Estremamente razionale ed introspettiva, la musica dei Cobalt è fatta di progressioni in continua metamorfosi che collassano in desolanti baratri interiori. Non ci sarà luce in queste composizioni, ma ispirazione sì, di quella davvero tanta.

Carico i commenti...  con calma