Come un oroscopo, la musica dei Cocteau Twins è talmente vaga, sollecitando sentimenti e creando situazioni talmente universali, che molti sono portati a pensare: “Questo è per me”.

Io però sono sicuro che “Victorialand” fosse proprio per me, per quell’estate spagnola piena di medioevo, carica del legno bruno delle cattedrali, delle pietre antiche dei bagni romani e del ferro nero degli arabeschi alle finestre di case calcinate. Poi scoppiò il sole, ci fermammo su una spiaggia, e tra le mie palpebre socchiuse filtrava la luce, il calore, e mi abbandonai alla felicità innocente di esistere.

“Victorialand” è calore, è luce, è felicità incontaminata dal veleno dell’ intelligenza, dal tarlo oscuro della ragione. “Victorialand” è un frutto pienamente maturo, è una rosa completamente aperta. Le chitarre di Robin Guthrie rifiutano un’analisi tecnica per farsi subito latori dei messaggi dell’ Es e dell’ Eros. L’effetto è immediato e quasi ultraterreno: l’ascoltatore ascende dritto dritto tra gli angeli di una chiesa barocca. Anno dopo anno, singolo dopo album, il sapore dei Cocteau Twins si era lentamente arrotondato. L’insistenza post-punk, lo stridore, la visionarietà febbrile si stavano placando. Quel frutto acerbo, spinoso e indigesto aveva distillato miele, stava schiarendo il proprio colore ferruginoso e schiudeva ora la promessa. “Victorialand” è un meraviglioso appagamento dei sensi. Quell’età d’oro era iniziata con “Aikea Guinea”, in cui le melodie avevano perso gli spigoli acuti. L’ombrosità, il rancore come contro un passato ingiusto avevano lasciato il posto alla fiducia in un futuro. “Tiny Dinamine” e “Echoes in a shallow bay” offrivano alle dita della mia mente le increspature di voce e di chitarra più vellutate, più deliziose che avessi mai udito.

Meno vistoso di quegli ep, più segreto, più raccolto, “Victorialand” fu lo zenith creativo dei vocalizzi di Liz Fraser e delle chitarre lussureggianti di Robin Guthrie. La voce di Liz inventava suoni perchè la felicità non c’è parola che possa contenerla, e le chitarre di Robin creavano un ambiente di morbida luce per ogni favola. Davvero un mago, Robin, con i pedali di quegli effetti. Dopo “Victorialand”, Liz e Robin si sarebbero fermati, consapevoli di non avere altra vetta da scalare. Il frutto sarebbe marcito, la rosa sarebbe sfiorita. La crisi avrebbe reso la loro musica deliberata piuttosto che libera, le melodie si sarebbero fatte zuccherose piuttosto che dolci. Liz avrebbe finito con l’usare parole riconoscibili, le parole di tutti, le parole di tutti i giorni, per le sue canzoni. Io la capivo meglio prima, quando l’urgenza delle voglie, la sensualità dell’esistere, la nostalgia d’un nonnulla erano il messaggio che lei captava dallo spazio per me, solo per me.

Il lettore indica che questo cd dura trentatré minuti. Non è vero. “Victorialand” è durato un’intera stagione incantata.

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