Poteva mai uscire qualcosa di sbagliato dalle mani di Peter Christopherson? Poteva non emozionare la voce di John Balance? Ovviamente no.
Data questa premessa, anche un album postumo come “Black Antlers”, bozza incompleta e rimaneggiata di quella che sarebbe stata l'ultima opera prodotta dai Coil, non poteva che essere qualcosa di meraviglioso.
Uscito in una versione abbreviata nella primavera del 2004, e poi riedito nel 2006 in forma ampliata ed accompagnato da un secondo mini-CD, “Black Antlers” porta avanti il verbo di una band morta e sepolta, il cui percorso artistico ha subito uno stop forzato in seguito alla drammatica e prematura morte del vocalist: un brusco coito interrotto che fortunatamente ha prodotto una ultima lunga eiaculazione sul ventre del panorama post-industriale.
Materiale inedito dato in pasto a fan famelici e bramosi di novità? Ma neanche per sogno! E se un album come “Ape of Naples” del 2005, incentrato maggiormente sulla voce di Balance, suona, pur nella sua bellezza, come un sentito tributo di Christopherson al defunto ed amato compagno, questo “Black Antlers” emerge più propriamente COIL. Insomma, se “Ape of Naples” rimane un'operazione-nostalgia in cui è lecito spendere copiose lacrime per l'immensa perdita artistica che quella morte accidentale ha provocato, in “Black Antlers” il pensiero che prepotentemente si affaccia alla mente è più semplicemente “che razza di cazzuti erano i Coil!”.
La voce di Balance è ovviamente presente, ma non ingombrante come nell'altro lavoro, mentre ampio spazio trovano le escursioni elettroniche del sapiente Christopherson, coadiuvato da quelli che sono stati i personaggi fondamentali dell'ultima fase della carriera della band, Danny Hide e Thigpaulsandra in primis. In particolare nel secondo CD, scritto e prodotto a quattro mani da Christopherson e Hyde, si sente l'influenza di quest'ultimo: due brani praticamente strumentali per circa diciotto minuti di techno demenziale in perfetto stile Coil, come amiamo ricordarceli nel capolavoro del 1991 “Love's Secret Domain”.
Ma incentriamoci sul primo CD, che costituisce il corpo sostanziale di questa release: sette brani per quasi un'ora di durata che segnano un ulteriore sviluppo in quello che sarebbe stato il cammino dei Coil.
A partire dai quattro EP “Moon's Milk” del 1998, e quindi con l'ingresso nella formazione del tastierista Thigpaulsandra, il sentiero del duo britannico aveva imboccato una direzione ben precisa, tramutandosi in un flusso sonoro che preferiva lasciarsi alle spalle le asperità industriali degli esordi, per assumere una forma più matura e meditativa, una deviazione all'insegna della liquefazione e dilatazione di suoni e strutture, una sorta di dark-esoteric-ambient spaziale (“lunare” potremmo precisare) che avrebbe portato ai due splendidi capitoli di “Musick to Play in the Dark”.
"Black Antlers" ne è stato quindi il naturale epilogo: quel che se ne evince è che i Coil erano oramai al di là di ogni possibile definizione.
Prendiamo per esempio i dieci minuti dell'opener “The Gimp (Sometimes)”, un'escursione cosmica già pervasa da quegli umori jazzy che da tempo sembravano frullare nella testa del maestro Christopherson (e che troveranno margini di sviluppo ulteriore nel superlativo “The Endless Not” dei redivivi Throbbing Gristle). La voce di Balance è ovviamente un rantolo che trasuda malattia e perversione in ogni sua sfumatura: un contributo un po' posticcio, a dirla tutta, dato che compare al sesto minuto e si spalma in maniera libera e indefessa su un brano volutamente prolungato all'infinito, piattaforma ideale per dare agio al fantasma di Balance, libero di sbizzarrirsi senza limite alcuno.
Questo, signori, non è industrial. Come del resto non è industrial la successiva “Sex with Sun Ra”, autentico capolavoro dell'album. Qui voce e tessiture elettroniche si amalgamano decisamente meglio: il recitato di Balance si cala alla perfezione nel pulsare minimal-techno del brano, arricchito nel finale da strimpellate di marimba, strumento di cui Christopherson sembra essersi innamorato in tarda età, forse stanco del gelo delle macchine che lui stesso aveva contribuito a sdoganare (imperdibile il reprise “Sex with Sun Ra – part two”, che troviamo nella nuova versione dell'album, chiamato a rielaborare in una veste ancora più allucinogena ed esot(er)ica il brano appena descritto).
Il lavoro di post-produzione si fa tuttavia (e comprensibilmente) pesante in più di un frangente. Per esempio è palese come in “The Wraiths and Strays of Paris”, terzo mastodontico brano, i versacci di Balance siano un orpello aggiunto in un secondo momento; eppure il pezzo rimane un gran bel pezzo, soprattutto quando nel finale irrompe una possente sferzata ritmica che imprime vigore ad un album che sembra puntare principalmente sull'atmosfera e sul potere evocativo del mistico recitato di Balance.
Il momento forse più struggente, l'immancabile parentesi di pura nostalgia, è l'inaspettata riproposizione di “All the Pretty Little Horses”, brano della tradizione inglese reso noto dai Current 93 nell'omonimo album (a cui fra l'altro Balance aveva contribuito), qui riesumato in veste minimale, per soli canto e xilofono: un gioiello di pura emozione chiamato rimettere al centro di tutto la voce di Balance e spezzare gli umori allucinogeni di un album dalla vocazione sostanzialmente strumentale.
La stessa “Teenage Lightining (10th birthday version)” rivive di vita propria anche se spurgata dal canto di Balance, costituendo un interessante esperimento, e non uno sterile riempitivo come i più maligni potrebbero insinuare. La title-track, infine, è un delirio techno in cui le urla becere di Balance sono una sirena allucinante che suona alla stregua dei molti strumenti impiegati nel brano, anch'esso come gli altri ben architettato, forte di complesse stratificazioni sonore e ricco di soluzioni vincenti.
E' difficile giudicare un artista in movimento, tanto più se si parla di un'entità multiforme e spiazzante come lo sono stati i Coil: ora che le acque son ferme, purtroppo, solo riascoltando questi album postumi, consci che si tratta ormai di un discorso oramai concluso, si capisce il valore effettivo (al di là di quello affettivo) di una band che ha fatto del coraggio, della sperimentazione e della professionalità un imperativo categorico. Cosa sarebbe seguito, questo non ci è dato saperlo: non ci resta che ributtarsi a capofitto nei capolavori (vecchi e nuovi) al fine di trarre tutto quello che rimane da scoprire, dettagli che ci eravamo permessi di tralasciare pensando che non saremmo mai rimasti a corto di Coil.
Poveri illusi: non sapevamo che la morte potesse nascondersi dietro ad ogni angolo, pronta ad interrompere i sogni più belli..
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