13 novembre 2004, triste giorno per i fan dei Coil: muore prematuramente, all'eta di 42 anni, John Balance. E l'ironia della sorte vuole che, dopo una vita all'insegna degli eccessi e degli stravizi, la sua vita si interrompa un pomeriggio qualsiasi per uno stupido incidente casalingo: una caduta dalle scale che si rivelerà tragicamente fatale.

A confortarci un poco per questa sconvolgente perdita, esce, postumo, questo "The Ape of Naples", datato 2005. E come tutti gli album postumi, "The Ape of Naples" va preso con una certa cautela e considerato per quello che è: un'opera incompleta. Fatta questa premessa, se mi è concesso parlare da fan sfegatato della band, posso finalmente dirlo: questo album è bellissimo.

C'è anzitutto da considerare il valore affettivo: questa è davvero l'ultima occasione per sentire la voce di Balance, l'ultima occasione per sentire la musica dei Coil. "The Ape of Naples" si rivela quindi, per chi ama la band, un vero tesoro, un tesoro prezioso da custodire religiosamente. Ma ci sono anche delle ragioni obiettive che ce lo fanno apprezzare: nonostante qui vengano raccolte registrazioni appartenenti a periodi diversi e suonate da artisti diversi, il certosino lavoro di Peter Christopherson in sede di produzione dà un sorpendente senso di omogeneità al tutto, sia a livello stilistico che di atmosfere, come se si trattasse di un vero e proprio album e non di una semplice raccolta celebrativa. The last and not the least, i pezzi: ci sono davvero dei buoni pezzi, direi una buona metà, che si vanno a collocare fra le cose più belle scritte dai Coil nella loro carriera. E se qua e là si fa sentire l'inevitabile opera di copia e incolla, se qualche episodio ci potrà apparire più un riempitivo che altro, se non c'è quella cura dei dettagli che ha sempre caratterizzato i lavori della band, pazienza: "The Ape of Naples" è quanto di più bello potevamo chiedere ad una band oramai morta e sepolta.

A rendere speciale questo album è paradossalmente la performance vocale di Balance, intrisa di un intimismo e di una fragilità inedite, tali che si ha quasi l'impressione che l'artista stia cantando la sua stessa morte. E se il suo fantasma aleggia per tutta la durata del platter, ammaliandoci a più riprese, la musica, che si allinea ai toni malinconici e a tratti sacrali che la situazione richiede, non è certo da meno. Le tastiere di Thigpaulsandra richiamano inevitabilmente le atmosfere lunari dei due tomi di "Musick to Play in the Dark", mentre il tocco di Danny Hide, già presente nel capolavoro "Love's Secret Domain", rifinisce il lavoro con gustose e sofisticate iniezioni di elettronica minimale. Da segnalare, infine, la presenza di sua maestà Trent Reznor, con cui la band aveva registrato del materiale nella seconda metà degli anni novanta, materiale che finalmente vede la luce.

Il trittico iniziale è da lacrimoni. L'opener "Fire of the Mind", profetica nella sua strofa di apertura ("Does Death come alone, or with eager reinforcements?"), acquista una valenza particolare proprio in virtù del triste evento che è chiamata a celebrare, ed è già in grado di rappresentare il mood dell'intera opera e la direzione artistica della band che di lì a poco avrebbe intrapreso: gli ultimi Coil ci appaiono orientati verso un sound più semplice e minimale, più suonato potremmo dire, un sound pervaso di atmosfere oniriche e suggestive perlustrazioni esistenziali. I cori angelici e le ariose tastiere, che animano la song, sono l'accompagnamento ideale per il canto struggente di Balance, all'apice della sua espressività. La seguente "The Last Amethyst Deceiver" rilegge il classico "Amethyst Deceiver" tingendolo di sognante intimismo: nei suoi nove pacati minuti, ci riporta direttamente alle sonorità dilatate del doppio "Musick to Play in the Dark", e va a costituire un volo metafisico per cieli inquieti, in cui il disincantato recitato di Balance sembra provenire, dolente, direttamente dall'aldilà. "Tatooed Man", infine, tratteggia, con le sue ambientazioni circensi e vagamente meridionali, un paesaggio surreale, dove l'andamento strampalato della fisarmonica si sposa alla perfezione con il canto visionario di Balance. Uno degli apici dell'arte dei Coil, oramai affrancati dalla dimensione più bastardamente industrial e definitivamente collocati al centro di un crocevia in cui s'incontrano sinth-pop, cantautorato, ambient goticheggiante e colta avanguardia.

L'ascolto, purtroppo, prosegue un po' a singhiozzo, fra episodi ispirati ed altri indubbiamente meno riusciti che vanno inevitabilmente a diluire i contenuti di questo album che dura ben 65 minuti e che, detto fra noi, avrebbe potuto anche durare di meno. "Triple Sun", per esempio, è un apprezzabile incursione in sonorità vagamente dark wave, ma alla fine del brano, che sfuma un po' così, rimane tuttavia il dubbio che si sia trattata di una, seppur sopraffina, opera di collage. Stessa impressione per "It's in my Blood", il brano più irruente della raccolta, che va ad abbinare una solida base industrial agli ululati isterici di Balance, a mio parere un po' fuori luogo, rispetto ai toni intimistici che pervadono il resto dell'album. "I Don't Get It" è uno strumentale non particolarmente incisivo, che, fra insano rumorismo e squarci di tromba, va comunque a recuperare l'attitudine sperimentale della band, per l'occasione lasciata un po' in disparte. Il ritmo sincopato di "Heaven's Blade" ci riporta immediatamente ad una dimensione più lineare e c'è da dire che la situazione migliora grazie soprattutto alla voce di Balance, che continua a dare vita a brani che altrimenti apparirebbero alquanto fiacchi ed eccessivamente semplici. Come infatti accade nella bellissima "Cold Cell", un altro gioiellino di sofisticato sinth-pop, in cui le ariose tastiere vanno a supportare egregiamente il canto desolato di Balance. "Teenage Lightning 2005" (nuova versione del classico presente su "Love's Secret Domain") è invece pura nostalgia. Fra il commovente e il divertente, da segnalare l'estemporaneo "fuori-onda" al termine del pezzo, in cui un gonfissimo Balance si sganascia dalle risate, andando a costituire un prezioso momento di allucinata idiozia ripescato chissà da quale archivio, forse il miglior modo per ricordare l'artista scomparso.

L'opera decolla nuovamente nel finale con una accoppiata veramente stratosferica: la lacerante "Amber Rain" è un discesa negli abissi della tristezza più cosmica ed universale, mentre la conclusiva "Going Up" ci consegna i Coil più ascetici e spirituali, un movimento ascendente che nell'intenso finale si fregia delle divine evoluzioni della voce bianca di Francos Testory, artefice di un crescendo emotivo davvero eccezionale, il miglior saluto che Balance potesse sperare.

Un'esperienza amara, questo "The Ape of Naples", chiamato a compiere un'impresa impossibile: colmare un vuoto incolmabile. Ma come una roccia sporgente lungo un precipizio è l'unico appiglio che abbiamo per evitare la caduta. E ad esso dobbiamo rimanere attaccati, volenti o nolenti. "The Ape of Naples" è un lavoro di innegabile fascino, nonché un album onesto, sincero e sentito, che ha il pregio di non scadere in facili sentimentalismi, autocitazioni ed in vuote e ruffiane auto-celebrazioni. Un album che, con tutti i suoi difetti, assurge perfettamente al ruolo di tributo ad un'artista fondamentale nella storia recente della musica. E per questo dobbiamo ringraziare Peter Christopherson che, con affetto e professionalità, ha saputo confezionare il perfetto saluto all'amico di una vita.

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