New York è il centro del mondo, chi è passato almeno una volta da Times Square lo sa; ogni tanto i neon ad altissima definizione sembrano assorbire tutta la vita che c'è per poi strizzarla e farla ricadere sui propri marciapiedi.
New York è l'attrattore asintotico di ogni esistenza del pianeta, l'Urbe del moderno, il fascino che c'è nel grigio, New York è il punto d'arrivo verso il niente, una promessa non mantenuta, la gabbia più grossa che esista, sprizza bellezza decadente da ogni mattone. I Cold Cave ci sono nati e cresciuti, l'hanno presa come insegnante e quel che esce dalle loro mani non appena le poggiano sugli strumenti è quel freddo synth-pop da suonare nei locali underground, disposti disordinati sopra ad un palco di compensato scuro e reti metalliche tutt'intorno.
Il primo "Love Comes Close" del 2009 suonava tetro e minimale, vuoi per volontà del vocalist Wesley Eisold, vuoi per la non totale padronanza dei mezzi; questo "Cherish The Light Years" (2011) si propone più vivace all'apparenza, mascherato dietro a suoni pomposi ed atmosfere da grandeur, ma sotto sotto l'animo lercio di catrame che lo caratterizza è sempre lo stesso. Il revival degli anni 80 che tanto va in voga negli ultimi anni non disdegna certo il lato cupo di quel decennio, dov'erano le tastiere programmate sui toni funerei a disegnare la strada, dov'erano le chitarre echeggianti a riempire i vuoti, dov'era la voce spettrale a cercare di bucare la plastica. L'accelerazione fulminea, istantanea, di "The Great Pan Is Dead" dà subito l'idea, folgorante ed immediata come un lampo, di quello che ci si deve aspettare dal secondo disco dei Cold Cave: synth profondi e imponenti, chitarre graffianti, voce soffocata ma perfettamente inserita nel quadro. Non si respira un attimo, tant'è che quel colpo di batteria sull'apertura della successiva "Pacing Around The Church" dà l'impressione di esser l'unico momento che potevamo sfruttare per rifiatare, ma è passato. Troppo tardi.
Non si tratta di un disco eccezionale, già le tracce iniziali sembrano comunque non riuscire a ricreare l'atmosfera che ci si ricorda dal lavoro precedente ma è quando le difese uditive si abbassano che i Cold Cave lanciano l'attacco più forte, innalzando il tono del disco a possibile capolavoro. Si va da "Confetti", aperta da un abbraccio di tastiere e chitarre che sa di sogno sporco, alla splendidamente radiofonica "Catacombs", in cui la voglia di far guardare verso una spiaggia di Coney Island non riesce ad uscire totalmente da quelle grate d'acciaio che circondano il palco mal verniciato di color petrolio, fino ad arrivare al pezzo che da solo vale l'ascolto di questo disco con la bella dama a lutto in copertina: "Underworld U.S.A.", il cui incipit potrebbe essere scambiato per quello di "Black Velveteen" di Lenny Kravitz, è un graffio psicologico, una marcia sui marciapiedi dei quartieri poveri, una palpitazione frenetica che porta all'infarto. Sedetevi ed ascoltate, vedrete i parchi vuoti, la gente comune, i murales, i camerieri che non sanno bene la lingua, i recinti che proteggono case popolari, vedrete gli Smiths, i Cure, le panchine gelide al vento, luci troppo lontane, fumo, odore di chiuso, l'uscita di sicurezza, ma questa non è l'uscita, vedrete i ratti, i buttafuori, le catene, i lucchetti, l'ufficio illuminato da una lampada da scrivania, le finestre sul disordine. Sì, può essere un capolavoro, o almeno avrebbe potuto esserlo se da questo punto in poi l'ispirazione compositiva e di conseguenza la qualità dei brani non andasse perdendosi in mezzo alla nebbia alta che inghiotte lo skyline di Manhattan nelle notti di Dicembre: "Icons Of Summer" non sa cosa vuole essere, "trovati un lavoro" verrebbe da dirle, "Alchemy Around You" è un inutile tentativo di far ballare un branco di zombi tirando in causa anche gli ottoni, "Burning Sage" riporta un po' in vita le atmosfere più minimali del disco d'esordio ma è un disperato tentativo di elettroshock, mentre "Villains Of The Moon" mette la parola fine a tutto e lo farebbe in grande stile se non fosse per quel ritornello che pare preso dalla sigla di un qualche cartone animato. Degli anni 80, ovviamente.
Una conferma come presenza nel panorama musicale dell'irrinunciabile New York, "Cherish The Light Years" è anche il disco in cui i Cold Cave dimostrano di non cadere nell'errore del sequel-fotocopia, lo stile si arricchisce, gli arrangiamenti si gonfiano, i passi avanti si fanno. Si pecca un po' in qualità, però.
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