Questo album ancora dopo 10 anni mostra una veloce evoluzione di Chris Martin e soci nel giro di appena due anni. Lo stesso era successo per esempio ai Blur tra "Leisure" e "Modern life is rubbish", ma erano rimasti fisicamente pressoché gli stessi. Invece Chris e soci sono cambiati da tutti i punti di vista (fisico, musica ecc...).
"Parachutes" e "A rush of blood to the head" sono due album molto diversi da loro: pur avendo un sapore fortemente autunnale, "Parachutes" è tranquillo è placido, mentre questo è inquieto. Si ha un sapore di autunno, ma a volte ci tocca pure un gelido inverno (il vento che apre "Amsterdam" e lo chiude).
E in tutt'e due però c'è la classe di sapere scrivere delle belle canzoni. "A rush" è un capolavoro di 4 uomini che nel giro di due anni sono diventati adulti.
Pochi i casi nella musica mondiale di artisti che scrivono in poco tempo brani destinati a rimanere nel tempo. Non certamente i Blur che impiegano quattro-cinque anni per cominciare a lasciare qualcosa come "Girls And Boys", "Parklife", "The Universal" (e poi "Song 2", "Tender" ecc...) e gli Oasis che ci lasciano del loro primo periodo giusto "Wonderwall", e "Live Forever" (e poco altro, dopo il 2002).
I Coldplay lasciano "Trouble" (da "Parachutes"), "The Scientist" e "Clocks" come capolavori da conservare quale patrimonio della musica nazionale (inglese) e internazionale. E un album che a tutt'oggi gode (o sembra godere) di un'importanza capitale che la produzione successiva sembra non godere.
In quella tarda estate del 2002 uscì il video di "In My Place" una canzone che mi accese un piccolo interesse nei confronti del gruppo, tanto da comprare il numero di "Tutto" di Settembre dove compariva un articolo sui Coldplay e una foto dei quattro con Martin che morde un girasole.
Ero in un periodo di "esistenziale transizione": avevo avuto a sorpresa una bella estate in Calabria con "Stop crying your heart out" degli Oasis (quale colonna sonora) (che aveva esaurito la sua permanenza in classifica tutta l'estate! - leggete cio che ne è scritto sulla mia recensione di "Heathen Chemistry") e in virtù di questo entusiasmo speravo che in quinta superiore sarei riuscito a passare un anno per l'esistenza migliore di quello che lo aveva preceduto (non racconto i particolari).
La molla che mi fece scattare l'amore per i Coldplay lasciando un binomio Blur-Oasis che aveva tenuto banco l'anno (scolastico) precedente e l'acquisto dell'album fu "The Scientist": una canzone che ancor oggi, dopo dieci anni, è indefinibile talmente è bella, che gli aggettivi si sprecano. L'intro di piano, il cantato di Martin, il procedere di altri strumenti e della batteria nella seconda strofa del pezzo: il tutto a creare un brano di sofferenza e inquietudine interiore fino a un finale un pò più tranquillo. Ma non dico altro perché "The Scientist" bisogna scoprirla da soli e gustarla ogni singolo secondo.
E insieme a questo brano la futurista "Clocks", altro gioiello di tutta la produzione Coldplay con quel ritmo e in quella musica che ti genera grande agitazione. Una canzone che un Marinetti (e anche/o forse un surrealista) la approverebbe a grandi lettere (o un video mentale dove gli orologi a muro disegnati salgono verso l'alto mentre le lancette si muovono continuamente, come in un cartone). Due canzoni da brividi.
Ma il resto? Altra carne al fuoco:
"Politik", sembra venuta di getto a Martin dopo i fatti dell'11 settembre 2001, è una richiesta di comprensione per un mondo che non si riesce più a capire, ed un altro gioiello che non regge però il confronto con "The Scientist" e "Clocks".
"Amsterdam" è un brano "glaciale" (il "vento", ricordate?) che sembra tranquillo finché un intermezzo di piano annuncia una sequenza lunga e scatenata di batteria e chitarra (alla Coldplay) e poi il brano si chiude magicamente tranquillo come era iniziato.
(Due gioielli un pò meno pregiati questi, di cui del primo ne ho attaccato il testo a scuola nel marzo del 2003, nei giorni della guerra in Iraq, insieme a "La ballata dell'eroe" di De André e, recentemente, inserito in una specie di "raccolta della pace", un mp3 per degli amici di Sant'Egidio ("Gli altri siamo noi", recensione) contenente canzoni sulla pace, di protesta, morali ecc...).
Fin qui i pezzi di carne nobili. Ma altri tagli non sono da meno:
"Green Eyes" è un piacevole 3/4 (dedicato alla moglie di Martin, Gwineth Paltrow?); "God Put A Smile Upon Your Face" è un altro pezzo piacevole e interessante, ma ha un video che non amo (ma quello di "The Scientist" mi era piaciuto ai tempi); "Daylight" è un altro brano niente male, ma dove non necessita soffermarmi; "Warning Sign" è molto evocativa (ascoltare per credere) mentre la title-track, pur essendo bella, non mi colpisce tanto. Vedete, io giudico una canzone in base alle sensazioni del cuore: se una canzone mi colpisce presto o tardi al cuore e lì si fissa, io ne parlo bene. Invece, se non lo fa (anche se realizzata bene) il mio giudizio si limiterà alla sua estetica.
Mi scuso se qualche lettore avrà a questo punto la pazienza agli sgoccioli, ma devo aggiungere qualche altra cosa: se pure la nostalgia che a volte sento questi giorni non è forte rispetto ai miei sentimenti di allora, provò però ancora qualche brivido quando ripenso all'"inverno" dell'anima (mia) del 2002-2003 guidato da quest'album (dopo la falsa e gioiosa allegria dell'anno prima con Blur e Oasis) e il fatto che abbracciavo una ragazza di nome Elisa in una gita a Cracovia (in Polonia) nel 2003. Vorrei ancora essere a sentirli.
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