Commerciali e ruffiani quanto volete ma i Coldplay dimostrano quando meno te l’aspetti di essere capaci di sorprendere, di avere un lato più serio e oscuro che non si sposa esattamente con le regole del mainstream. Avevano piazzato il colpo a sorpresa con “Ghost Stories” e ora prendono tutti in contropiede con questo “Everyday Life”.
Il disco che proprio non ti aspetti, totalmente fuori dagli schemi, che non si prefigge come primo obiettivo quello di sfondare in classifica (pur facendolo comunque) e che non rispetta quasi nessuna delle regole del pop, anzi rema contro. A partire dalla scelta di pubblicare un album composto da due parti, una chiamata “Sunrise” ed un’altra chiamata “Sunset”; nell’epoca dello streaming e di YouTube e con di fronte un pubblico che ragiona per “canzoni” e solitamente non si interessa all’album (anche se a dire il vero il pop non è mai stato un genere album-oriented) un doppio album con un progetto ambizioso appare una scelta rischiosa. L’album ha poi una natura sperimentale ma anche nel tipo di sperimentazione si va decisamente controcorrente; quando si sperimenta oggigiorno si tende a scegliere la via dell’elettronica, spesso quella più modaiola e ruffiana, invece qui i Coldplay si manifestano in una veste perlopiù acustica e delicata (e ricordo che le sonorità delicate non sono mai davvero alla moda) e scelgono di complicarsi la vita avventurandosi in generi piuttosto lontani dai gusti della massa, talvolta in grado di sembrare perfino strambi alle orecchie degli ascoltatori; numerose incursioni nel folk nelle sue diverse forme ma anche nella world music, nel blues, nel gospel, nel soul, nella classica; sonorità tutt’altro che alla moda e persino provenienti da decenni lontani; non vedevo una virata verso sonorità così poco familiari dai tempi di “BE” dei Pain of Salvation, con la differenza che dai Coldplay non ce lo si aspetta proprio. Merita attenzione anche la durata di brani, metà di essi durano meno di tre minuti e si esprimono al massimo del potenziale, è notevole come la band sia riuscita a condensare tutta la propria creatività in intervalli di tempo così brevi, è più facile fare il contrario, è più frequente imbattersi in tentativi di comporre brani più lunghi.
Ma facciamo una panoramica sulle tracce, entriamo meglio nello specifico. I momenti più spiazzanti che colgono impreparato chiunque sono senz’altro il motivetto gospel “Broken”, il rythm’n’blues volutamente piagnucolato di “Cry, Cry, Cry” ma soprattutto il canto simil-gregoriano “When I Need a Friend”, sono queste le sonorità più azzardate e rischiose, lo sarebbero per qualsiasi gruppo contemporaneo, ancor più per un gruppo pop, è come tentare di conquistare una ragazza tutta selfie e discoteca con le amiche portandola ad un museo anziché ripiegare su un semplice pub, sono proprio quel tipo di canzoni che se tu passi l’auricolare ad un qualsiasi ragazzino ti piazza l’esclamazione “ma cos’è sta roba?”. Ma anche il resto non scherza, anche il resto è spiazzante e poco lusinghiero per chi vuole cuccare, non è certo con delle ballate folk piuttosto oscure che si porta a letto una ragazza; mi riferisco ad esempio alla neo-acustica “WOTW / POTP”, che richiama lo stile dei Kings of Convenience, alla chitarrina frizzante in stile far west di “Guns”, fino all’indie folk più rurale di “Èkó” o alla canzone da cerchio attorno al falò “Old Friends”. Ritmi gitani caratterizzano “Arabesque” (con inserti di fiati e con Stromae alla voce), “Orphans” invece abbraccia cori ed atmosfere africane inserite però in contesto più pop, siamo di fronte ad un mix fra U2 e Peter Gabriel. L’intro “Sunrise” è all’insegna della musica classica orchestrale, influenza che ritroviamo in salsa più pop nella conclusiva “Everyday Life”, un pianoforte di ispirazione classica lo troviamo in “بنی آدم”. “Trouble in Town” e “Daddy” invece puntano molto sulla delicatezza e poco sulla contaminazione, suonano leggere e pacate come mai prima d’ora. I due brani più puramente pop sono senz’altro “Church” e “Champion of the World”, fra le poche ad avere un appeal radiofonico e da stadio.
Quindi possiamo affermarlo senza problemi: “Everyday Life” non è un album alla moda, è un album che invece smentisce chiunque fosse ormai convinto che i Coldplay fossero una band preda del music business col pensiero alla banconota prevalente sul fattore emozionale. Sono continuamente bersaglio della critica più snob per la loro tendenza a lasciarsi accalappiare dal successo facile ma se analizziamo a fondo la carriera dei Coldplay alla fine veniamo alla conclusione che sono sempre stati una band con una certa attenzione per le cose fatte bene e per le melodie più o meno raffinate, gli unici due album ruffiani e accattoni con sonorità da tette al vento allo stadio alla fine sono solo due, “Mylo Xyloto” e “A Head Full of Dreams”, e comunque anch’essi erano dei bei dischetti pop se confrontati con il letame che gira abitualmente nel 21esimo secolo. Quest’ultimo lavoro probabilmente non basterà ad elevarli a “grandissima band”, rimangono una band “buona”, ma intanto hanno vinto, ha vinto la vena artistica su quella redditizia e per una band pop inserita in quell’enorme vortice che ti risucchia che è il music business è notevole, poco importa se hanno subito annunciato l’intenzione di tornare il più presto possibile con una controparte più easy (la stessa cosa che fecero dopo “Ghost Stories”), se hai un lato artistico quello easy può tranquillamente essere perdonato, anzi, perfino giustificato se non approvato, un artista è giusto che abbia un lato “leggero”, anche per dimostrare che alla fine potrà essere snob e schivo quanto vuole ma alla fine è umano e figlio del mondo contemporaneo anche lui, è anche lui sulla stessa barca e non c’è scampo per nessuno.
Ma i Coldplay vincono anche su un altro aspetto, quello umano e sociale al quale si sono sempre mostrati vicini, decidendo di non far seguire all’uscita dell’album un tour negli stadi (rinunciando anche a lauti incassi, anche sotto questo aspetto il fine economico è stato messo da parte) finché non sarà sostenibile per l’ambiente (sottolineando comunque che l’album non ha sonorità stadio-friendly), mentre invece Jovanotti fa i tour nelle spiagge dove abbiamo sempre visto la gente accampare allegramente e lasciare tonnellate di rifiuti.
Probabilmente potevano permettersi di fare tutto questo, probabilmente il largo successo già incassato ha consentito loro di essere loro stessi fino in fondo, ma intanto, almeno per il momento, i Coldplay hanno vinto.
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